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Contratti pubblici (regole, deroghe e super-deroghe)

Autore

Giancarlo Blasi
nasce in un piccolo paese dell’Irpinia. Conseguita la maturità si trasferisce a Torino dove si laurea in Ingegneria meccanica presso il Politecnico. Nei primi anni di attività professionale si impegna nello sviluppo di software applicativo per i primi personal computer che giungono in Italia dagli Stati Uniti. Dopo il disastroso terremoto che colpisce l’Irpinia nel 1980, ritorna al paese d’origine e viene assunto dall’Amministrazione comunale per dirigerne l’Ufficio tecnico. Resta in servizio per oltre 35 anni, occupandosi di edilizia privata, ricostruzione, urbanistica, governo del territorio e lavori pubblici. Collocato in pensione per raggiunti limiti di età, attualmente, da lavoratore autonomo, fornisce servizi ad Enti pubblici nell’ambito delle materie in cui ha conseguito esperienza. Ha svolto e svolge anche attività formative e di ricerca.

Tanto vale ammetterlo subito, senza reticenze: di mestiere mi occupo di contratti pubblici, insomma di appalti, di concessioni e quelle cose lì. Lavoro per le amministrazioni pubbliche. Ai miei figli, quando erano ragazzi, cercavo di tener nascosto che il loro papà lavorava negli appalti. Allora, come oggi, era una brutta parola che si associava spesso a parole come scandalo, corruzione, arresti, processi e così via. Quando va bene si associa a parole come inefficienza o ritardo. Insomma il mio non è un bel mestiere e non ne parlo volentieri, soprattutto con chi non mi conosce e non lavora nello stesso campo. Anche perché, per chi non lavora nello stesso campo, offre argomenti che possono essere molto noiosi. E chi lavora nel settore e non mi conosce difficilmente mi risparmia imbarazzanti ammiccamenti. 

Di contratti pubblici si parla e scrive molto, in televisione, sui giornali e sugli altri mezzi di comunicazione di massa. Non ho scritto mass-media apposta: qualcosa mi impedisce di mescolare inglese e latino. Ne parlano giornalisti ed opinionisti, ne parlano politici e tecnici, esperti e tuttologi. Se ne parla anche al caffè, quasi quanto si parla di calcio. Se ne parla come di un ammalato cui tutti si sentono in grado di fare diagnosi e offrire terapie. 

Si parte quasi sempre dall’ultimo argomento di cronaca per affrontare il discorso sulle “regole”, delle quali si individuano, con invidiabile rapidità e sicurezza, gli aspetti patologici prospettando, con altrettanta rapidità e sicurezza, taumaturgiche soluzioni. E purtroppo con un analogo schema mentale si muove chi le “regole” è chiamato a farle, cioè il politico-legislatore. 

Sembrerò certamente presuntuoso se, dal mio cantuccio di provincia, affermo di aver l’impressione che, quasi sempre, questi medici che tanto velocemente fanno diagnosi e prescrivono terapie, non conoscono né la fisiologia né l’anatomia del paziente. 

Ho cominciato la mia attività professionale con “regole” ottocentesche. La Legge fondamentale era del 1865; il Regolamento del 1895. Ad essi si aggiungeva il Regolamento sulla contabilità dello Stato del 1924. A queste regole ottocentesche si attribuì il degrado etico del settore dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture che venne alla luce ai primi anni ’90 del secolo scorso, comunemente definito “tangentopoli”. Da lì cominciava un furioso processo di riforma che partiva dalla Legge Merloni del 1994 e dal Regolamento di attuazione DPR 554 del 1999, tacendo di altri innumerevoli provvedimenti minori e/o correttivi. Processo di riforma che, anche per la necessità di adeguare il nostro ordinamento alle Direttive europee, proseguiva con il Codice dei Contratti del 2006 e relativo Regolamento di attuazione DPR 207 del 2010, anche qui tacendo di altri correlati provvedimenti minori e/o correttivi. E, apparentemente inarrestabile, la riforma ancora proseguiva con il Codice dei Contratti del 2016 nel quale si rinunciava al classico Regolamento di attuazione, optando, in sua sostituzione, per una “soft-law” affidata prevalentemente all’Autorità Nazionale AntiCorruzione, ANAC, autorità indipendente che prima si era chiamata Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici, AVCP, e prima ancora Autorità di Vigilanza sui Lavori Pubblici, AVLLLPP. 

Il Codice del 2016 fu presentato, dal legislatore dell’epoca, come rivoluzionario e portatore di ogni soluzione. Pur prescindendo dagli innumerevoli errori (logici, lessicali e persino grammaticali) in esso contenuti e mai del tutto emendati, fu immediatamente chiaro che, anche a prescindere dal merito del suo contenuto, con il Codice del 2016 le “regole” dei contratti pubblici avevano assunto, ormai, un aspetto mostruoso. Non solo per i suoi 220 articoli e 25 corposi allegati, ma anche per i circa 50 provvedimenti attuativi da emanarsi dall’ANAC, da vari Ministeri ed altre Istituzioni. 

E così gli operatori del settore, sia di parte pubblica che di parte privata, che devono attenersi a quelle “regole” si trovano al cospetto di una quantità impressionante di “fonti”: le norme europee (considerate prevalenti su quelle nazionali), il Codice, i provvedimenti dell’ANAC (che sovente hanno in pratica valore di Legge), un numero incredibile di decreti ministeriali, e, infine, il cosiddetto “diritto vivente” e cioè le decisioni dell’Autorità giudiziaria nazionale (TAR, Consiglio di Stato, Corte di Cassazione, Corte dei Conti) e della Corte Europea di Giustizia. 

A parole il “mostro” non piace a nessuno, in taluni casi nemmeno a chi lo ha generato o ha contribuito a generarlo. Dubito che il generalizzato dissenso sia sempre sincero: sono convinto, infatti, che il mostruoso complesso di regole così costituito giovi molto e chi sa maneggiarlo, magari con l’aiuto di efficaci lubrificanti, per fini opachi ed illeciti. 

Certo è singolare che un sistema di regole inaugurato nel 2016, abbia avuto necessità, già solo nel 2019, di un Decreto definito “sblocca cantieri”, che vi introduce oltre ottanta correttivi, alcuni temporanei ed altri definitivi, anche di portata notevole, come la rinuncia alla soft-law. Ed è ancor più singolare che nel 2020, per far fronte all’emergenza sanitaria da Covid-19, s’è dovuto adottare il cosiddetto “decreto semplificazioni”. 

In quest’ultimo colpisce un comma dell’articolo 2, che trascrivo, sfrondandolo di quelle parti che lo renderebbero poco comprensibile ai non addetti: 

nei settori dell’edilizia scolastica, universitaria, sanitaria, giudiziaria e penitenziaria, delle infrastrutture per attività di ricerca scientifica e per la sicurezza pubblica, dei trasporti e delle infrastrutture stradali, ferroviarie, portuali, aeroportuali, lacuali e idriche, le stazioni appaltanti, per l’affidamento delle attività di esecuzione di lavori, servizi e forniture nonché dei servizi di ingegneria e architettura, inclusa l’attività di progettazione, e per l’esecuzione dei relativi contratti, operano in deroga ad ogni disposizione di legge diversa da quella  penale, . Tali disposizioni si applicano, altresì, agli interventi per la messa a norma o in sicurezza degli edifici pubblici destinati ad attività istituzionali, al fine di sostenere le imprese ed i professionisti del comparto edile, anche operanti nell’edilizia specializzata sui beni vincolati dal punto di vista culturale o paesaggistico, nonché di recuperare e valorizzare il patrimonio esistente.” 

Ecco la super-deroga. Pare che il legislatore stia dicendo: considerato che nelle regole che abbiamo fatto non si capisce nulla, fate come vi pare, purché non lasciate prova di abusi, corruzione, concussione, falso o turbativa degli incanti. 

Che tristezza! 

Postilla 

Attraversato il testo mi ritrovo in una sensazione multipla. Una preoccupazione affettiva per il mio amico che da mani a sera si dimena in un labirinto che non prevede una via d’uscita. Interviene poi un senso di fatiscenza edificata, a la Piranesi o un percorso a la Escher. O forse una versione ancora più complicata de Il giardino dei sentieri che si biforcano di Borges. Prevale, però, alfine, una profilatura testuale affrancata dall’oggetto, alla stregua del miglior Danil Charms e dei suoi Casi, che si lasciano l’assurdo alle spalle ritenendolo un esercizio per dilettanti. Per approdare a quel luogo ineffabile dove non è la complicazione del reale a intervenire nella semplicità, ma è la semplicità che, ritiratasi per ascensione necessitata in un sesto empireo, osserva gli umani che contraggono, non per portare avanti insieme le cose, come etimologia vorrebbe, ma per contrarsi, contriti, da ogni possibilità di vita buona, mentre si consegnano all’illusione di condurre un’esistenza furba. [um] 

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