Rileggendo Mario Miegge, Vocazione e lavoro, Claudiana, Torino 2010; edizione francese: Vocation et travail. Essai sur l’éthique puritaine, Labor et Fides, Ginevra 1989
Strana avventura, quella della parola “lavoro”. Nell’evoluzione degli scenari globali, con le crisi geopolitiche e finanziarie acuitesi dopo il 1989 e il 2008, è possibile delinearne il tragitto a partire da una sensibile mutazione nel lessico storico concettuale, in particolare di matrice anglosassone.
Così, osservando l’emergere di un termine, job, che nell’inglese del Trecento significava “blocco”, “pezzo” e, per estensione, “soma”, nel senso di «qualcosa che poteva essere spostato da una parte ad un’altra», Richard Sennett, rimarca come il flexible capitalism abbia radicalmente modificato il senso di appartenenza e vocazione che, in qualche modo, erano ancora denotati da termini come “professione” o “carriera”.
“Carriera” indicava infatti un percorso da seguire, una via lungo la quale indirizzare l’esistenza. Non a caso career, in origine, significava strada, percorso per i carri, tragitto. Ma il capitalismo della flessibilità integrale (chiamiamolo così, per capirci), modificando profondamente la struttura economica e sociale che permetteva alle parole di aderire alle cose, ha riportato in auge il «significato arcaico della parola job, in quanto durante la propria vita le persone sono chiamate a svolgere “blocchi” o “pezzi” di lavoro (o di mansioni)». Tutto questo ha un’inevitabile ripercussione sul carattere (character) dei singoli e, inevitabilmente, sulle forme della vita comune che ne derivano. Proprio per questa ragione, Sennett ha parlato di una «corrosion of character».
Corrosione del carattere significa corrosione del nesso vocazione-lavoro e del complesso reticolato storico, simbolico e concettuale che, in qualche modo, a quei termini si ricollega e richiama. Ri-trasformazione o involuzione – ha scritto Sennett in un suo lavoro più recente, dove rielabora alcune categorizzazioni formulate in The Human condition (1958) di Hannah Arendt – dell’homo faber in animal laborans. In questo processo involutivo che ha toccato – se accettiamo l’analisi –il plesso del lavoro, tutta una costellazione concettuale ne esce compromessa. Forse irrimediabilmente. Non ultimo, il termine-concetto, chiave per la dottrina calvinista e puritana, di vocatio.
Alla «strana avventura» del termine travail, aveva d’altronde dedicato uno scritto lo storico Lucien Febvre . Scritto richiamato da Mario Miegge in apertura del V capitolo del suo Vocazione e lavoro, non a caso in pagine dedicate a Richard Baxter, il maggior teologo del Dissent che, in una sua opera fondamentale del 1673, Christian Directory, conferisce proprio alla nozione di labour lo statuto di concetto, collocando, scrive Miegge, «il labour nell’ambito di una robusta dottrina dell’azione (action) divina e umana». Nelle pagine di Baxter, d’altronde, è possibile individuare la presenza dei termini che verranno a comporre il paradigma dell’azione umana in The Human condition della Arendt: labor/labour, work, action.
Torniamo per un attimo a Febvre. Quella del termine “lavoro”, osserva Febvre, è una «étrange aventure». Il francese “travaille”, osserva lo storico fondatore (con Marc Bloch) delle Annales, partito dal senso di «torture — tripaliare, torturer avec le tripalium, la machine à trois pieux — s’est substitué au cours du XVIe siècle, dans notre vocabulaire français, aux deux vieux mots précédemment utilisés: l’un, labourer, que les laboureurs accaparaient de plus en plus (en attendant que les “travailleurs de laboratoire” lui redonnent quelque prestige intellectuel); l’autre, ouvrer, qui ne servirait plus qu’aux dames patronnesses dans leurs ouvroirs, si nos ouvriers ne procédaient toujours de lui. Mais de ses origines, le travail, au XVIIe siècle, gardait encore la marque. Il continuait à impliquer, parfois, gêne, accablement, souffrance, — humiliation aussi».6
La strana avventura delle parole che designano il termine “lavoro” e ne articolano storicamente il concetto si arricchisce e si rende ancor più complessa quando si mettono a confronto fra loro le lingue europee. Nelle lingue italiana e inglese, il processo di emancipazione concettuale del lavoro dalle antiche marchiature ha seguito particolari tragitti culturali. Così, osserva Miegge, «se i laboureurs francesi sono rimasti legati all’aratro, in attesa dell’avvento dei travailleurs de laboratoire, si può osservare che invece, nell’età comunale del XII e XIII secolo, i laborantes – attori del labor – si sono insediati precocemente nell’economia urbana e vi hanno conquistato strutture e linguaggi di libera associazione, per esempio nelle laborantium congregationes».
Di queste congregazioni di lavoratori si parla in un resoconto epistolare del colloquio tenutosi a Bergamo nel 1218 tra i valdesi di Francia (i Poveri di Lione) e i valdesi dell’Italia settentrionale (i Poveri lombardi). Un documento, questo, di grande importanza anche ai fini della ricerca e dell’indagine storica sulla legittimazione del lavoro. Tra le divergenze che i Poveri di Lione e i Poveri di Lombardia cercarono di sanare nel colloquio di Bergamo, uno riguardava appunto le laborantium congregationes, avversate dai francesi ma non dai lombardi che, al contrario, le organizzavano. Se i Poveri di Lione si attenevano strettamente ai modelli di povertà evangelica e alla predicazione itinerante libera da ogni possesso, i lombardi affermavano al contrario la piena dignità del lavoro manuale, equiparandolo alle attività umane più alte. Di conseguenza, i lombardi consideravano lecito l’inserimento dei predicatori valdesi nelle fila delle associazioni dei lavoratori, convinti che le laborantium congregationes fossero già in sé un tipo di presenza evangelica. Il rapporto fra vocatio e labor e fra vita contemplativa e vita activa venne assunto in un’ottica nuova, un’ottica che la Riforma riconfigurerà circoscrivendo (o, se si preferisce, espandendo) l’intero arco delle attività mondane e profane alla voce «vocazione cristiana».
La Riforma eleverà gli officia della vita domestica e della vita pubblica e, con esse, l’intera gamma delle professioni e dei mestieri, anche i più umili, al rango di un agire che risponde a una divina chiamata.
Tre secoli prima della Riforma, nel XIII secolo, a Bergamo fu però sancita e riconosciuta la legittimità dello stare nel mondo traendo frutti da un lavoro secolare, a condizione di sottomettersi alla legge del Signore. Miegge osserva a tal proposito che, anche in questo campo, si può ritenere che «la rivoluzione comunale italiana e i suoi risvolto nella vita religiosa abbiano anticipato svolte culturali che vengono solitamente (e talvolta erroneamente) collocate nei due primi secoli della “età moderna”».
Se, prosegue Mario Miegge, «il lessico e le elaborazioni concettuali della vocatio hanno lunga durata e, nel solco tracciato dai testi biblici e apostolici, accompagnano tutta la vicenda della cristianità occidentale», assai più complessa è la storia del labor, che ha mantenuto marchiature di classe che, fin dalle sue origini, si sono viste legate agli strati più bassi in cui si collocavano i laborantes e le loro attività “servili”.
Il latino vocatio corrisponde al greco klesis (dalla radice del verbo kaleo, convocare) che, nelle lettere di Paolo, designa la chiamata divina che fa scorgere l’ekklesia, l’adunata dei credenti. La parola tedesca per vocatio è Beruf e verrà introdotta nella lingua corrente dalla traduzione della Bibbia fatta da Martin Lutero, così come l’equivalente inglese calling sarà introdotto dalla traduzione inglese di Thomas Cranmer nel 1539. A differenza di calling e Beruf, però, l’italiano vocazione e il francese vocation non hanno assunto la connotazione professionale dei loro omologhi inglese e tedesco e, «d’altra parte, i termini profani che designano l’attività professionale non hanno incorporato la connotazione etico-religiosa di Beruf e calling, in cui permane la traccia della divina “chiamata”».
Ma che cos’è o, meglio, che cosa diventa la dottrina della vocazione a contatto con la Modernità? Quali novità apporta alla concezione del lavoro?
Per capirlo, occorre andare a un passo del Libro IV, capitolo 13 (“De votis”), dedicato ai voti monastici, della Institutio christianae religionis di Giovanni Calvino. Il riformatore tratta della perfezione della vita cristiana, così come è concepita e ricercata a partire dal IV e parla di «giusta vocazione» approvata da Dio. Per Calvino, lo «stato di perfezione» dell’ideale monastico – ossia il ritirarsi dal mondo – «non è confacente alla fraternità cristiana».
Giova ricordare come, nel Medioevo, vigesse una distinzione di fondo che organizzava la vita della società cristiana: quella tra precetti e consigli. I precetti (i comandamenti e il sommario della Legge) vigevano per tutti, laici e clero secolare ma anche religiosi degli ordini monastici. I consigli, enunciati nel Discorso della Montagna, erano prescritti solo ai religiosi vincolati ai voti di celibato, povertà e obbedienza. Calvino respinge la distinzione tra precetti e consigli, con conseguenze importanti che capovolgono la concezione tradizionale della vocazione. Nel linguaggio religioso del Medioevo, vocatio indicava il passaggio dallo stato laicale e mondano a quello religioso, qualificato come «stato di perfezione». Calvino contesta questo presupposto, chiedendosi: «Perché chiamano il loro ordine stato di perfezione, togliendo questo titolo a tutte le vocazioni ordinate da Dio?». Al contrario, osserva il riformatore, «Dio apprezza maggiormente la condizione di un uomo che […] abbia cura di governare rettamente e saldamente la sua famiglia». Il tipo di vita che Dio stima maggiormente è dunque quello che esclude i voti di celibato, povertà e obbedienza e Calvino, con linguaggio giuridico preciso e chiaro, designa così il soggetto che meglio risponde alla vocatio: sanctus parterfamilias. Con Calvino, la dimensione vocazionale esce dall’isolamento e dalla contemplatio, diventando quella mutua inter homines communicatio che è stata vista come il centro del pensiero economico della modernità riformata. In opposizione alla scolastica medievale, Calvino riorganizza tutte le forme della vita e dell’agire mondano nell’unità del servizio divino. Così il concetto di vocatio assume un ruolo strategico nel sommovimento religioso e culturale del XVI secolo.
In questo senso, come intuirà Ernst Troeltsch, la dottrina della vocazione non è unicamente un costrutto teologico, ma implica inevitabilmente una socio/logia, ovvero uno schema normativo fondamentale capace di regolare i rapporti fra individuo e comunità. In questo senso, sempre secondo Troeltsch il calvinismo è impegnato costantemente e continuamente, «coscientemente e metodicamente alla formazione di una comunità santa».
Diversamente dall’agire vocazionale che, in Lutero, poggiando su I Corinzi 7,20, ancora si risolve, secondo le parole di Marx, in «servitù per convinzione», ovvero in una stasi che limita, pena la caduta nel disordine, ogni cambiamento di stato, l’ideale calvinista non coincide più con l’adesione a un sistema di professioni prestabilito e stabile, ma al contrario pone le professioni e il loro libero uso al servizio di quella comunità santa. Conseguenza inevitabile di questa visione è la mobilità sociale. Una mobilità sociale e un cambiamento di professioni vengono non solo ammessi e tollerati «per giusta causa» ma addirittura sollecitati quando si tratti di questioni riguardanti il bene pubblico.
Se per Calvino, la vocazione è una «regola perpetua» che conferisce ordine e armonia alla vita comune, nel puritanesimo inglese essa diverrà oggetto di trattati specifici, indirizzati a un pubblico vasto e eterogeneo di lettori. Così, il trattato di William Perkins Treatise of the Vocations (1605) affronta la questione dell’ordine della 7 società, in un momento in cui i vecchi assetti si stanno sgretolando, introducendo il concetto di «vocazione particolare» (particular calling) e lasciando a poco a poco spazio al tradesman,l’uomo di mestiere e di bottega, portato ad esempio di buona gestione dei compiti vocazionali. Il tradesman sarà poi oggetto di trattazione specifica da parte di Richard Steele che, nel 1684, in un clima politico ben diverso, pubblicò il suo Tradesman’s calling. «Dopo due decenni di rivoluzione (1640-1660)», osserva Miegge, «ai puritani sconfitti sono stati sbarrati lo spazio politico e le carriere pubbliche. Espulsi dalla restaurata chiesa d’Inghilterra nel 1662, i loro pastori e teologi prendono la guida delle comunità dissenzienti, radicate negli ambienti popolari e piccolo borghesi e sovente esposte a repressione. Essi dedicano dunque i loro sermoni alle callings particolari degli agricoltori e dei marinai, degli artigiani e dei commercianti.
Costretta a trincerarsi nelle attività della vita privata, la dottrina vocazionale del tardo puritanesimo elabora il catalogo delle “virtù economiche” e i profili di un’etica professionale che (nella lettura proposta da Max Weber) si associa al nascente “spirito” del capitalismo moderno».
Non di secondario interesse sono, dunque, i due trattati di Perkins e Steele. Proprio dal puritanesimo inglese del Seicento parte l’idea, che man mano si radicherà in quel comune terreno concettuale che oggi versa in stato di crisi, che l’identità personale, il “carattere” per dirla con Richard Sennett, si articola e si costruisce primariamente a partire dalle prestazioni professionali e dal lavoro. Ironia delle cose: proprio la parola “lavoro” è quasi assente in forma autonoma dal lessico di Calvino, che la usa unicamente come sinonimo di “sforzo”.
Sarà nel testo di Richard Baxter, Christian Directory, che il termine labour inizierà a assumere «statura di concetto». Per il teologo del Dissenso Richard Baxter, il lavoro verrà inserito in «una robusta dottrina della azione (action) divina e umana», rivendicando l’applicazione rigorosa del dettame apostolico «chi non vuole lavorare non mangi» (II Tessalonicesi, 3,10). Christian Directory segna un vero e proprio cambiamento di registro rispetto alla tradizione puritana. C’è in quello di Baxter, rispetto al trattato di Perkins, un’inversione nell’ordine logica fra labour e calling. Se per Perkins e per Steele il lavoro è una modalità della particular calling (è, quindi, la vocazione ad assicurare la pieta dignità e la legittimità del lavoro), interamente focalizzato sulla necessità dell’azione e sul grande tema puritano della «redenzione del tempo» (costruzione finalistica che dà coerenza all’opera, work), Baxter parte da una dimostrazione teoretica della necessità del lavoro.
La calling interviene in un secondo momento col significato moderno di «determinazione etica e tecnica» del lavoro. Un lavoro che, nel giro di pochi decenni, assunse un valore di cui stentiamo, oggi, a percepirne l’eco come concetto chiave su cui si sarebbe incardinato l’ordine moderno.