Un amico lontano mi ha chiesto di dire qualche parola sulla crisi del teatro. Ci ho ragionato un po’ su ma in conclusione ho dovuto ammettere, prima di tutto a me stesso, che purtroppo le mie discutibili competenze non mi sono di grande aiuto quando si tratta di suggerire soluzioni al dramma della pandemia. A questo punto però mi trovavo nei pasticci: una richiesta di un amico non può rimanere inascoltata. E poi, come spiegarglielo senza che magari si impermalosisse o pensasse chissà cosa. Insomma, che fare? Beh, ho pensato, forse una cosa la posso fare: raccontare una storia. Però potrò farlo soltanto ad una condizione: che mi aiutiate. Sì, perché dovrete compiere un volo spazio-temporale immaginando di essere d’estate, a metà degli anni ’90 dell’altro secolo. Lo avete fatto? Bene. Il vostro piacevole volo non sarà troppo lungo poiché dovrete quasi subito planare dolcemente verso la Toscana e infine su San Miniato, un’accogliente cittadina adagiata su un colle quasi perfettamente equidistante da Pisa e da Firenze. Una volta che sarete atterrati (ed io vi suggerisco di farlo verso mezzogiorno sul prato antistante la Rocca di Federico II perché potrete godere assieme di una brezza rinfrescante e di uno splendido panorama), vi saranno sufficienti un migliaio di passi, tutti in discesa, per raggiungere un Auditorium. Non è per l’edificio però che vi ho chiesto di fare questo viaggio ma perché entrando vi troverete nel bel mezzo di un Convegno sul teatro, circondati da esperti impegnati a dibattere sulle sue sorti future. Dopo qualche momento, quando i vostri occhi si saranno abituati alla penombra della sala e vi sarete seduti in uno dei posti delle prime file, vedrete davanti a voi, al tavolo della Presidenza, i relatori del giorno e, sparpagliati nella vasta platea, alcuni pensosi ascoltatori. Riuscite a vederli? Si tratta di registi, attori, critici, studiosi, insomma tutti addetti ai lavori. Ancora un po’ di pazienza adesso, vi chiedo un ultimo sforzo: giratevi e guardate dietro di voi, verso il fondo della sala che, dal momento che ha un gradevole declivio, si trova un poco più in alto rispetto a dove siete seduti, circostanza che permette una visione perfetta. Infatti, ecco, vedete? Quello che vi sta salutando con la mano e dando il benvenuto sono io venticinque anni fa. La persona che mi siede accanto invece non perdo tempo a presentarvela perché la conoscete certamente già, dal momento che si tratta di Andrea Camilleri. Non dovete stupirvi di trovarlo in questo contesto. Sta semplicemente facendo il suo lavoro di regista e di insegnante dell’Accademia nazionale d’Arte Drammatica. Se nessuno lo importuna è perché, anche se ha già pubblicato un certo numero di romanzi e inventato Salvo Montalbano l’anno prima, la fama deve ancora raggiungerlo. Negli ultimi minuti Andrea ed io ci siamo scambiati un paio di sguardi affranti. Le relazioni della mattina, pur se interessanti, per qualche motivo imperscrutabile hanno dato la stura ad un dibattito decisamente deplorevole. Quella mattinata insomma sta volgendo al termine con un mortifero susseguirsi di piagnistei e geremiadi sull’irrisolvibile crisi che affligge il teatro, attanaglia la regia, infetta la recitazione. Né sono mancati riferimenti ad altre imminenti catastrofi che si profilano all’orizzonte dell’umanità. Tutto ciò, oltre a guastare l’appetito, e siamo a mezzogiorno, pone un problema: in una tale plumbea atmosfera come immaginare di rivedersi al pomeriggio per proseguire i lavori del Convegno? Sempre che, naturalmente, si sia ancora vivi perché alcuni degli intervenuti sembravano nutrire dubbi anche su questo. Per mia fortuna (e per la fortuna dei molti altri partecipanti a quella giornata) Andrea non è uomo da perdersi d’animo e da lasciarsi sfuggire una simile occasione. Infatti, se ci state ancora guardando, non vi sarà sfuggito lo sguardo allegro che ha adesso, mentre si alza e si dirige verso il tavolo degli oratori. Lo raggiunge proprio nel momento in cui l’ultimo profeta sta terminando, fra gli apotropaici scongiuri della platea, il suo parecchio dimenticabile intervento. Eccolo quindi chiedere educatamente al moderatore il microfono per, così dice, raccontare una storia. Ed ecco infine, più o meno, ciò che avreste udito dalla sua voce arrochita dal fumo se foste stati presenti:
«Sarò molto breve. La crisi del teatro è davvero grave per cui ho da aggiungere soltanto una cosa a ciò che è stato detto e con cui mi dichiaro completamente d’accordo. Poche settimane fa ad Atene, in seguito a certi scavi archeologici, è stata fatta una straordinaria scoperta di cui forse non tutti sono informati. È stato trovato un preziosissimo libriccino di Eschilo che era andato perduto. Ebbene, ha un titolo inequivocabile: La crisi del teatro.»
Quindi, nel silenzio assoluto, Andrea depose il microfono e si avviò placido verso l’uscita. Qualcuno in platea credo sia andato perfino a controllare. Per quanto ci riguarda invece andammo a pranzo.
Qualche anno dopo decidemmo di inserire in un suo libro di cui curavo la pubblicazione un breve paragrafo che tornava sull’argomento. Lo trascrivo.
«All’inizio del suo libro “La crisi del teatro”, Silvio D’Amico racconta che un critico francese ha trovato oltre settanta libri nel corso di cento anni intitolati proprio così: La crisi del teatro. Credo si possa dire che il teatro è come certi alberi che ho visto alle Canarie: si chiamano “draghi” e sono alberi preistorici, completamente pietrificati. Questi alberi, questi “draghi” sembrano morti e poi, all’improvviso, germogliano…».
Non voglio però lasciarvi con lo spiacevole equivoco di sottovalutare le difficoltà di chi perde il lavoro, di chi resta solo davanti al virus, davanti al dramma della malattia. La mia intenzione è un’altra: ricordare a noi tutti che non siamo i primi a cui accade di dover resistere e che possiamo cercare ispirazione in precedenti illustri. Uno in particolare. Il 28 gennaio del 1593 tutti i teatri di Londra vennero chiusi per via di un’epidemia di peste e così rimasero fino all’autunno del 1594. Eppure, la vena creativa di Shakespeare, anziché esserne intaccata, ne uscì rafforzata. Non sappiamo come fece, si può immaginare che non cadde nella depressione e nell’inedia, non si abbandonò alla rabbia o al rancore. Fatto sta che, non appena i teatri riaprirono, lui fu pronto a rifornire la sua compagnia di capolavori immortali. Una cosa analoga del resto gli avvenne in altre occasioni poiché la peste continuava ad imperversare. Nel 1606, dopo un’ennesima chiusura dei teatri, non appena la peste concesse una tregua, Shakespeare aprì il cassetto e ne trasse un nuovo copione sul cui frontespizio era scritto: King Lear.
Perciò, buona crisi a tutti.