Il contributo pubblicato nel numero di Passion&Lavoro dell’1 ottobre, intitolato Appunti sul destino del lavoro a partire dalla crisi COVID-19 (discussione con Rosario Iaccarino), concludeva così:
- la pandemia sta producendo, e continuerà a produrre a lungo, una trasformazione strutturale, definitiva, della composizione della classe dei lavoratori: caduta del numero di lavoratori a tempo pieno, socialmente protetti e sindacalmente rappresentati;
- i lavoratori espulsi dal processo produttivo lo saranno non perché le imprese vorranno, come han fatto negli ultimi trent’anni, “ridurre i costi”. Il criterio operativo sarà d’ora in avanti quello del distanziamento. L’occupazione verrà colpita maggiormente nei segmenti di processo produttivo, e nelle imprese, in cui il rispetto del distanziamento è difficile, e il progresso tecnico dovrà necessariamente sopperire al vecchio modo di lavorare. Un esempio? Robots che assumono alcune funzioni svolte dal personale di supporto nelle strutture sanitarie;
- I lavoratori espulsi dal processo produttivo finiranno necessariamente ad alimentare quel segmento dell’offerta di lavoro che prelude all’ingresso nell’area della povertà.
Una reazione possibile a questo modo di ragionare, e a questa conclusione, è: il progresso tecnico c’è sempre stato, negli ultimi due secoli, e pauperizzazione di massa non se ne è vista. Vero. Una reazione che richiede dunque che venga spiegata la novità in questa crisi presente, o quantomeno la sua particolarità. Ciò che è diverso stavolta, nella mia ipotesi interpretativa, è che la sostituzione di capitale a lavoro non è generata “semplicemente” dalla ricerca della riduzione dei costi a parità di produzione, un fatto discusso in tutti i libri di testo introduttivi di economia e insegnatoci già mezzo secolo fa qui, in Italia, dalla Fiat, quando il costo del lavoro organizzato cominciava a salire “troppo” e i robots fecero la loro comparsa a Torino decenni fa. In quell’occasione, come in tante altre in tutto il mondo, il processo di sostituzione del capitale al lavoro era, comparativamente parlando, gestibile: il passo del progresso tecnologico era graduale, non tutti i settori e tutte le attività produttive ne venivano interessate allo stesso momento e con la stessa intensità. E gli effetti occupazionali, sociali ed economici si imparò a gestirli: la fabbrica rimaneva centrale nel processo di produzione della ricchezza, e il sindacato fu strumento fondamentale della gestione della transizione. Io chiamo tutto questo “la normalità del capitalismo”.
In che cosa allora la situazione presente è “anormale”? Non eravamo forse già da anni sulla strada della digitalizzazione di tutto il digitabile? Forse che l’insegnamento a distanza non era già conosciuto? (Certo che era conosciuto, lo era da mezzo secolo e più, dai corsi per corrispondenza della storica Scuola Radio Elettra Torino, così come dal meritorio programma televisivo “Non è mai troppo tardi” condotto dal maestro Manzi a cui l’alfabetizzazione di tante persone è dovuta.) Certo, tutto vero, tutto procedeva per il meglio, e il percorso veniva tracciato ogni giorno in modo più nitido, il percorso dal fisico al digitale.
Ma chi leggesse con attenzione i rapporti delle società di consulenza manageriale e di direzione, troverebbe questa valutazione ripetuta in maniera ossessiva: le imprese realizzeranno in due anni i piani di trasformazione digitale che avevano programmato per l’arco di un decennio e più. Ecco la novità: l’innovazione tecnologica adottata in tempi strettissimi, da tutte le imprese (quelle che ci provano, ovviamente, quelle che ne hanno la forza, le competenze, una visione strategica…), in un processo talmente vasto e veloce che non lascia spazio alle cosiddette “piccole e medie imprese” che hanno sempre snobbato le competenze necessarie, che hanno vissuto di sussidi e non di competitività, che hanno lottato per un costo del lavoro sempre più basso e non per l’impiego ottimo delle competenze del proprio personale.
La velocità, la profondità e l’estensione dell’abbandono del fisico e dell’adozione del digitale dipendono tutte dalla ragione della transizione: il distanziamento. Il distanziamento che è qui per restare, che guiderà i comportamenti dei produttori e dei consumatori, nell’industria e nei servizi. Quel distanziamento che avrà effetti gravi sull’occupazione più povera, quella manuale, protetta e rappresentata nell’industria e in parte nelle costruzioni, meno nei servizi, dove le retribuzioni sono già in tensione forte e avanzata è la “dualizzazione” delle retribuzioni stesse e delle protezioni assicurative.
E allora è logico chiedersi: se la produttività aumenta mentre l’occupazione diminuisce, o quanto meno diminuisce il monte salari per via di declassamento del lavoro da un lato e dell’espulsione pura e semplice di lavoratori dal processo produttivo, chi comprerà il maggior prodotto così generato?
Se questa ipotesi interpretativa della situazione presente è plausibile, allora dovremmo trovarci di fronte ad un processo di rapida, in termini comparativi, creazione di una classe di occupati poveri, i working poors delle ricerche condotte negli Stati Uniti. Ebbene, la ricerca mostra sempre più spesso che il numero di working poors aumenta all’aumentare del periodo di disoccupazione che segue la dismissione: più precisamente, in quel paese la probabilità che una persona disoccupata trovi lavoro decresce al crescere del numero dei mesi passati in disoccupazione, e si avvicina asintoticamente allo zero dopo 12-16 mesi.
Alla riduzione dell’occupazione la produttività cresce. Non pensiamo alla produttività come fatto numerico, risultato della semplice divisione valore aggiunto/occupati, ma al fatto economico e politico che l’adozione accelerata delle tecnologie digitali porta con sé. In breve: la sostituzione di metodi digitali a metodi fisici, l’adozione dell’intelligenza artificiale, addirittura la riscoperta del maggior valore aggiunto prodotto con il lavoro di gruppo in sostituzione del lavoro individuale anche in presenza di lavoro a distanza. E allora è logico chiedersi: se la produttività aumenta mentre l’occupazione diminuisce, o quanto meno diminuisce il monte salari per via di declassamento del lavoro da un lato e dell’espulsione pura e semplice di lavoratori dal processo produttivo, chi comprerà il maggior prodotto così generato? Da dove verrà il reddito con cui i lavoratori finanziavano le proprie spese per consumi? Per rievocare un termine che periodicamente torna in auge nella storia del capitalismo: come si esce da una crisi di sottoconsumo?
Dalla storia impariamo che la guerra è stato uno strumento molto usato: domanda governativa che faceva aumentare fortemente l’occupazione maschile, ad esempio nelle forze armate, al punto che le donne (!) dovevano essere impiegate nel settore privato. Alcuni hanno poi sostenuto che la domanda, carente nei paesi ad alto reddito pro capite, sarebbe arrivata dai paesi a reddito pro capite più basso: colonialismo o imperialismo, a seconda delle epoche. Ma entrambe queste vie sembrano oggi, fortunatamente, relativamente meno praticabili di quanto non lo fossero in passato. E allora? Contiamo di presentare in nuce il dibattito nei prossimi numeri di questa Rivista.