Ogni emergenza reca in primo luogo il panico d’una fine, il tramonto oscurante del tempo, in cui l’arresto del divenire genera fantasmi e induce al confiteor speculare. Domanda: ma siamo sicuri che la cultura di massa non abbia già prodotto un subdolo, aggressivo virus che da due generazioni ha attaccato la cultura e l’arte svuotandole dei loro valori umani, storici, etici ed estetici? Ebbene, ripercorrendo il recente passato, si va delineando la convinzione che l’onnivora borghesia opulenta ha consumato il prodotto artistico esclusivamente come proprio attestato di rappresentanza culturale, ponendo in primo piano il divismo audiovisivo degli interpreti (sia pure ottimi sotto il profilo professionale) ma trascurando (o oscurando) l’alto significato dell’opera d’arte che, ricreativamente, al di là del tempo, rinnova la linfa perenne del pensiero umano, inducendo i fruitori alla libertà di giudizio e alla critica della società in cui si è inseriti come ciechi e sordi.
Il dramma dell’attacco al cuore dell’immaginario è già affiorato negli artisti all’inizio del Novecento, quando i giganti profetici della creatività: da Stravinskij a Picasso, da Pirandello a Brecht, da Wedekind a Bartok, da Wilde e Majakovskij, han gettato l’allarme sulla disumanizzazione prodotta dal capitalismo industriale, lanciando provocatoriamente alla ribalta del mondo perbenistico il Futurismo, il cabaret, il cinema come arte, il jazz, il Cubismo, la dodecafonia e altro. In campo poetico-musicale emerge l’alto senso affidato alla trascrizione, come corrosiva critica ad un pubblico d’élite, che presume di leggere autorevolmente i valori di un prodotto poetico, ma che, all’opposto, ne ha travisato i significati, trasformandoli in occasione di autoreferenzialità. Come a dire che la finzione ha prevaricato la funzione.
Insigni trascrittori in senso critico furono Bartok, Satie, Rimskij-Korsakov, Debussy, Busoni, che, non limitandosi passivamente a ripercorrere i suoni scritti di un’opera, quelli stilistici ed orali emarginati dall’ufficialità, ne svelarono i sensi riposti, mai còlti precedentemente dai cosiddetti musicologi, e quindi mettendo a nudo l’ignoranza ufficiale del pubblico in smoking, consumatore di caviale, ostriche e maionese sinfoniche. Perfino oggi, in cui la giacca doppio petto con cravatta è stata sostituita snobisticamente da ipocriti blue jeans e magliette, in realtà è da considerare che quel pubblico è in grado solo di fruire della cosiddetta musica leggera, e delle altre insipienze di massa. Al presente, esecuzioni del Requiem di Verdi (sia pure egregiamente eseguito), della Nona sinfonia di Beethoven, paradossalmente trasferite in uno stadio e riprese televisivamente in mondovisione, assumono lo stesso significato d’un contenitore usa e getta di Schweppes e di patatine fritte, offerto in omaggio da un politico o da un titolare di alta finanza, ai fini della personale nominanza mediatica. E’ avvenuto, insomma, ciò che annunciavano Stravinskij e Picasso quando vedevano, con raccapriccio in anticipo, il cadavere dell’opera d’arte come oggetto fossilizzato nelle stratificazioni d’una discarica. Al pari, gli insensati propositi di didattica a distanza, oppure l’esecuzione di musica cameristica con esecutori distanziati a norma di legge, indicano compiutamente la distanza politica dal senso esecutivo e conoscitivo di una esecuzione musicale, giustificando le restrizioni in senso cautelativo. A tal punto, si può mai obbiettare sulla cautela protettiva? E agli artisti che cautela resta se non darsi all’ippica, privati, come sono, della loro funzione comunicativa? O non sarebbe opportuno restaurare l’antica comunicazione a distanza mediante la sola percussione dei tamburi? Ma non toccherebbe proprio agli artisti la ricerca di un vaccino poetico che isoli e debelli il delittuoso virus industriale?
[Testo tratto dalle note all’Opera del Maestro Roberto De Simone “Concerto tra scrittura e trascrittura”, tenutosi al Teatro San Carlo di Napoli il 26 luglio 2020]