È tempo di battersi per il controllo dei mezzi e degli strumenti che producono conoscenza nei luoghi di lavoro.

Autore

Andrea Donegà
Direttore delle sedi Enaip di Lecco, Monticello Brianza e Morbegno, impegnato nella formazione professionale con giovani e adulti. Un passato da educatore che ha preceduto 15 anni di impegno sindacale che lo hanno portato a ricoprire la carica di Segretario Generale della Fim Cisl Lombardia e di responsabile nazionale dei giovani metalmeccanici con i quali ha organizzato diversi campi di lavoro nei terreni e nei beni confiscati alla camorra nel casertano, approfondendo le conoscenze su economia civile e agricoltura sociale. Laureato in Sociologia in Bicocca, da sempre impegnato nel sociale, ha vissuto molte esperienze di volontariato negli orfanotrofi rumeni con l’associazione fondata da don Gino Rigoldi “Bambini in Romania” la prima delle quali, a 18 anni, fu decisiva per l’ingresso nel mondo degli adulti e la presa di consapevolezza del valore dell’impegno civico che, da allora, ha sempre coltivato. Oggi è componente del Direttivo dell’Associazione Amici Casa della Carità e attivista della Fondazione SON – Speranza Oltre Noi, realtà che lavora sul tema delle fragilità e del “dopo di noi”. Cofondatore di Passion&Linguaggi, collabora con il mensile Mosaico di Pace ed è autore del libro “Don Colmegna: al centro dei margini”. Nato a Como il 26/11/1981, convive con Francesca ed è papà di Carlotta, Tommaso e Samuele e genitore affidatario di Jason.

Antonio Gramsci, il 29 gennaio 1916, scriveva su Il Grido del popolo: “Bisogna disabituarsi e smettere di concepire la cultura come sapere enciclopedico, in cui l’uomo non è visto se non sotto forma di recipiente da empire e stivare di dati empirici; […]Questa forma di cultura è veramente dannosa […]. Serve solo a creare degli spostati, della gente che crede di essere superiore al resto dell’umanità perché ha ammassato nella memoria una certa quantità di dati e di date, che snocciola ad ogni occasione per farne quasi una barriera fra sé e gli altri. […] Ma questa non è cultura, è pedanteria, non è intelligenza, ma intelletto, e contro di essa ben a ragione si reagisce. La cultura è una cosa ben diversa. È organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri”. Quando si parla di cultura non si può prescindere da quel grande intellettuale contro il quale il fascismo si impegnò, invano, per “impedire a quel cervello di funzionare per almeno vent’anni”. La libertà di pensiero e l’analisi critica sono sempre state avversate dai fautori del pensiero unico che prevede un popolo ignorante e passivo, quindi, più facile da controllare e indirizzare. Invece, la produzione intellettuale di Gramsci germogliò proprio negli anni bui dell’ingiusta detenzione, sbocciando nei Quaderni dal Carcere, un’opera letteraria che si poneva come la luce fuori dal tunnel nero, simbolo dell’impegno per promuovere un pensiero collettivo che doveva stare alla base di un benessere diffuso. Il cervello di Gramsci non fu dunque spento ma, oggi, il rischio è che a spegnersi siano le teste di tantissime persone, anestetizzate da anni di disinvestimento in cultura e dall’uso distorto della tecnologia. Alessandro Baricco, in The Game, descrive bene gli esiti di questa battaglia continua tra superficialità e profondità, dove la prima finisce sempre per avere la meglio; dove l’individualismo e la disintermediazione fingono di regalare forza e potere; dove la velocità abbatte la capacità di riflessione; dove la verità per essere tale, a prescindere dai fatti, deve arrivare subito e senza troppi dettagli; dove i concetti devono essere facili e immediati. Ugo Morelli, sulle pagine di questa rivista, esplicita meglio questi concetti, individuando piste di lavoro e “due processi contro cui agire: la macchina di produzione dell’ignoranza e l’obsolescenza programmata dell’esperienza. Da uno vale uno al negazionismo, dallo sfarinamento dell’insegnamento delle conoscenze di base alla profonda crisi di autorità nelle relazioni educative asimmetriche, dal disinvestimento nella cultura e nei sistemi educativi alla scomparsa della formazione culturale e riflessiva; dalla cosiddetta conoscenza in pillole alle fake news; la crisi di accessibilità alle fonti della conoscenza e la non disponibilità dei codici di accesso e di selezione della conoscenza, configurano di fatto una macchina di produzione dell’ignoranza che funziona in modi molto efficienti”. Scelte precise che hanno prosciugato la fonte culturale promotrice di sviluppo e di comunità, favorendo la formazione di una palude di non cultura portatrice insana di disuguaglianza, emarginazione, arricchimento di pochi a scapito dei molti, precarietà, scarti, esclusione, sprechi, sfruttamento ambientale e sociale. E il paradosso, in tutto ciò, è che quel pensiero dominante, che si regge su questo disinvestimento culturale, si è fatto forte del consenso servitogli proprio da chi è rimasto schiacciato da quelle stesse scelte economiche e politiche. Pensiamo alla questione fiscale, alveo della redistribuzione della ricchezza: Carlo Rovelli lo scorso 17 novembre, sulle pagine de Il Corriere della Sera, ci ricorda che “in Italia esistevano imposte sulle successioni con aliquote alte e progressive (in Francia ci sono ancora) e non irrisorie come quelle attuali. Fino al 1983 l’Irpef aveva 22 scaglioni e aliquote tra il 10 e il 72%. Il sistema aveva effetti redistributivi, era serenamente accettato socialmente, era condiviso a livello politico e tecnico, e ha permesso alti tassi di crescita e di occupazione e una crescita economica notevole e relativamente equilibrata di tutte le fasce sociali”. Eppure lo smantellamento di quello che era un sistema equo ha registrato una saldatura clamorosa tra chi lo ha programmato e realizzato e coloro che erano i destinatari dei benefici che quel meccanismo redistributivo, cancellato, assicurava. Le cause vanno ricercate tanto nel disinvestimento culturale e civico, quanto nel disimpegno di coloro che avrebbero dovuto vigilare sul benessere collettivo, partiti progressisti in primis; quasi come se l’autoconservazione politica fosse stata sacrificata sull’altare dell’indifferenza, della fuga dalle responsabilità, dal disinteresse per il bene comune e per i più deboli. Oppure pensiamo anche ai nostri modelli di consumo alimentati dalla rincorsa continua all’ultimo modello e retti su meccanismi di sfruttamento continuo dell’ambiente e delle persone. È l’estremizzazione di quella distruzione creativa, così definita da Schumpeter, che anima il dinamismo del capitalismo nascondendo le contraddizioni e le disuguaglianze. La falsa illusione di sentirci realizzati e di sfruttare la tecnologia per migliorare la nostra vita, non ci fa cogliere la nostra libertà e il nostro potere di porre fine a un modello che, in realtà, ci rende schiavi. L’intuizione del voto col portafoglio, ovvero la possibilità per i cittadini di premiare, attraverso i consumi, le aziende, le filiere e le imprese che rispettano, nel lavoro, la sostenibilità ambientale, sociale ed economica rappresenta un’arma nuova e potente, anche di lotta sindacale, per realizzare un modello alternativo di economia e sviluppo e la via per costruire un welfare inclusivo e generativo fondato, appunto, sul lavoro e sui legami e non sul semplice assistenzialismo. 

È il momento quindi di prendere consapevolezza dell’enorme potere che abbiamo a disposizione per liberarci dal giogo di questo modello economico perverso e aprire nuovi orizzonti. Da questa attualità, fatta di velocità, incertezza e paura, usciremo solo con scelte radicali, che rimettano al centro le persone e le comunità. Emanuela Fellin, su questa rivista, spiega molto bene quanto spesso risulti molto più comodo “adeguarci per non impegnarci: ci sono costi di attivazione e non sempre vogliamo sostenerli”. Impegnarsi, quindi, costa fatica che coincide con l’assumersi collettivamente una responsabilità per farsi carico, insieme, di questa fatica perché produca risorse. Questo è il tempo degli uomini di buona volontà. 

Ecco perché, come Sindacato, abbiamo una grossa responsabilità da esercitare in questa fase: ricostruire legami sociali e consapevolezza tra le persone, che è la condizione per generare una nuova cultura capace di produrre i cambiamenti che insieme abbiamo il dovere di immaginare. Una delle sfide che abbiamo davanti, forse la più importante, è quella di ridistribuire conoscenza all’interno dei luoghi di lavoro. Arjun Appadurai e Neta Alexander, nel loro ultimo libro Fallimento, hanno ben spiegato il concetto di obsolescenza programmata, il fattore con cui il modello capitalista si autoalimenta, stimolando sempre nuova domanda di beni, attraverso la realizzazione di prodotti destinati a guastarsi dopo poco tempo, da soddisfare con un’offerta sempre migliore, quanto meno all’apparenza, di nuovi prodotti. Se pensiamo ai luoghi di lavoro, la spinta dell’innovazione tecnologica e digitale, se non presidiata, produce obsolescenza di competenze e, quindi, espulsione dai processi produttivi degli esclusi dai percorsi di aggiornamento delle professionalità e delle competenze stesse. Appadurai e Alexander spiegano, infatti, che “il cambiamento tecnologico è trainato dall’obsolescenza e dall’innovazione”. Non è dunque un caso che gli industriali si oppongano al divieto di licenziamento sostenendo che questa misura soffochi le possibilità di avanzamento tecnologico e digitale che non possono trovare realizzazione perché, secondo loro, non è possibile sostituire lavoratori a basse competenze con altri a competenze più elevate. Con questo approccio, ancora una volta, il sistema produrrà scarti umani. Per noi, invece, è la persona che deve essere valorizzata nel suo insieme, opponendoci alla logica, ben spiegata dai due studiosi, della riduzione dell’individuo al dividuale: “dividualizzando gli esseri umani, cioè conferendo a certe dimensioni parziali dell’individuo un rilievo maggiore di quello accordato all’assemblaggio complessivo, quello che un tempo era appunto l’individuo, la finanza del nostro tempo (e il sistema capitalistico, aggiungo io) altera la natura soggettiva umana per rendere più facile aggregare, ricombinare, monitorare, anticipare e sfruttare i soggetti nell’interesse dei mercati finanziari”. In questo modo a scricchiolare è l’idea stessa di società dove l’individuo rappresentava il fondamento dell’agire etico e della responsabilità e, quindi, “se decade l’idea di individuo, la modernità occidentale perde il suo presupposto fondante”. Insomma, una visione delle persone come parzialità, come pezzi di un puzzle da comporre e ricomporre in funzione, unicamente, delle logiche di profitto, perse nell’anonimato, incapaci di pensiero e imprigionate nella precarietà.  

Ecco perché noi possiamo avere un ruolo fondamentale per recuperare il concetto di individuo, come soggetto che pensa e agisce, che possa riconoscersi nell’altro e che possa forgiare la propria forte identità nel lavoro, trovando poi il proprio posto nella società. Si tratta, parafrasando Marx, di battersi per il controllo dei mezzi e degli strumenti che producono conoscenza nei luoghi di lavoro. La via per riequilibrare il potere all’interno dei luoghi di lavoro, che non può restare concentrato nelle mani delle imprese, se vogliamo contrastare il riemergere delle disuguaglianze sul lavoro che il covid sta accelerando. Una lotta che, come ci insegna don Virginio Colmegna, coincide con la “passione per i diritti di tutti” perché “il potere lo si può esercitare amando e non umiliando l’altro”. In definitiva, se vogliamo contenere la produzione di scarti, rispettare l’ambiente, riducendo quella montagna di rifiuti che conseguentemente si determina, dobbiamo contrastare l’obsolescenza programmata, riscoprendo la cultura della manutenzione; allo stesso modo, se vogliamo contrastare la produzione di scarti umani nel lavoro, dobbiamo occuparci di manutenere e aggiornare le competenze dei lavoratori. Due facce della stessa medaglia: se iniziamo a battere con forza queste vie ci accorgeremo, presto, di aver iniziato a modificare questo modello economico che ci rende allo stesso tempo vittime e motori, aprendo nuovi scenari fatti di benessere condiviso e di prospettive di sostenibilità. 

In fondo, è ancora una questione culturale ricordandoci che, come ci insegna Gramsci, ogni rivoluzione è stata preceduta da un intenso lavorio di critica, di penetrazione culturale, di permeazione di idee”. Si tratta quindi di iniziare.   

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