Qualcosa potrebbe iniziare a cambiare se il cuore del politico si presentasse al cuore del cittadino dicendo alcune parole. La rappresentanza è rapporto costante e quotidiano
Non è stato un maledetto fulmine che ha bruciato l’albero della politica democratica. E’ stata piuttosto la pioggia acida che cade dappertutto, l’aria fetida che entra invisibile in ogni foglia, la terra sabbiosa attorno alle radici. Lo spirito del tempo, giorno dopo giorno, ci ha spinto inesorabilmente fin qui. Oggi non c’è la persona, c’è l’individuo con la sua singletudine. Come singoli si è clienti più affidabili per la città/mercato del capitalismo avanzato. I legami sono una gran perdita di tempo, portano grane per gli affari e possono addirittura condurre a pensare criticamente e a rovesciare il banco. La costellazione valoriale che sta sopra il cielo degli individui va composta unendo i punti luminosi dei ‘diritti individuali’, dell’‘eterno presente’, dell’ ‘offerta di mercato’ e della ‘felicità immanente’. Sotto questo cielo il politico, cioè colui o colei che per vocazione/professione (o anche solo per occasione), si trova a dover svolgere il compito di strutturare il legame sociale orientandolo a un bene comune, vive una stagione di grande affanno. Deve seguire l’onda del narcisismo di massa. È costretto a mettersi in gara con la soubrette televisiva per contendersi l’audience. Dato che nessuno gli chiede di esercitare un compito di rappresentanza qualificata delle istanze civili presenti su un territorio, non può far altro che dare rappresentazione al senso comune, a mietere l’emotività con cui l’opinione pubblica reagisce al dispiegarsi dei fatti sociali, orfana com’è dei tradizionali corpi intermedi e della loro funzione mediatrice. Il politico è costretto a essere l’avatar delle emozioni di massa. Per poterle veicolare gli tocca padroneggiare i complessi meccanismi di consolidamento dell’immagine che assimilano l’attività politica a qualsiasi altro settore del marketing. Interpretata da questi avatar, la politica diventa più un’estetica del consenso pubblico che un’etica del bene comune. Non può permettersi scelte impopolari, schiava com’è dei sondaggi. Il suo respiro è corto, la sua capacità di pensiero strategico ridotta a poco e niente. Non si sforza di capire gli avvenimenti, ha solo la prontezza nell’afferrare le briglie dello stato d’animo del momento.
Come si può pensare che l’avatar torni ad essere il difensore, il condottiero, la guida, il deputato allo sviluppo integrale del popolo? Sottovoce tento di suggerire un’ipotesi: qualcosa potrebbe iniziare a cambiare se il cuore del politico si presentasse al cuore del cittadino dicendo alcune parole. Cor ad cor loquitur.
La prima parola – “sono con te, anche se sono diverso da te” – richiama innanzitutto la natura della rappresentanza. Essa è presenza, vicinanza, compagnia, con quel valore etimologico del mangiare il pane insieme (cum pane). E’ quindi oggettivamente una vergogna che, con il passare delle leggi elettorali, l’eletto non sappia neanche più dove abita il suo elettore. La rappresentanza è rapporto costante e quotidiano. Ma non coincide mai con quell’identificazione che vorrebbe la propaganda populistica. Il mio rappresentante non può essere identico a me. Questa idea fusionale è sbagliata. Il rappresentante è per definizione un altro da me ed è sacrosanto che mantenga la sua alterità. Posso pretendere che mi stia vicino, che mi ascolti, che sia coerente con le sue promesse, che non si trasformi in casta, ma non posso chiedergli di essere mangiato dal mio omnivoro narcisismo.
La seconda parola – “ti dico quel vedo, perché non uso fake news“ – è un invito a fare un bagno nella realtà. La tentazione di sganciarsi da quel che non piace e che spesso punge e fa male, spinge a premiare il Lucignolo di turno, chi ci vuol portare nel Paese dei Balocchi, chi parla a vanvera, senza sapere i termini delle questioni, lanciandoci sull’ottovolante di emozioni forti. Fa niente se poi se finiamo a terra in preda a passioni tristi. Guardare la realtà coi suoi numeri, tipo le cifre spaventose del nostro debito pubblico, può essere doloroso ma è indispensabile per avere il senso delle dimensioni e delle proporzioni, per smettere, ad esempio, di fare parti eguali tra diseguali. Tornare ai fatti senza notizie fasulle, scoperchiando le finzioni, non più che farci bene. È la premessa indispensabile per procedere, nel caso lo volessimo davvero, sulla via del cambiamento.
Ti dico quel vedo, perché non uso fake news. Mi assumo la responsabilità di sognare, altrimenti non ti servo a niente, ti basta un ragioniere
Infatti, la terza parola -“mi assumo la responsabilità di sognare, altrimenti non ti servo a niente, ti basta un ragioniere“ – è una parola promettente. Ridà al politico la materia prima del suo esercizio, che sta nell’immaginazione del futuro in ordine all’organizzazione sociale. Il “che fare” del politico viene dopo il “cosa posso sognare”, sognare di giorno, a occhi aperti. Un tempo anche il sognare era più facile, sostenuto com’era dalle “grandi narrazioni” . Queste si sono estinte, anche se in realtà ne continua a circolare una, dissimulata e quindi ancora più incisiva, ed è quella di un tardo capitalismo liberale, supportato dall’industria dei media, dei Big Tech e dei Big Pharma. Il vero politico sa tutto questo e non si adagia, rilancia una sua narrazione, una sua “politica” – ovvero un’immaginazione del mondo e della realtà, delle sue relazioni e delle sue forme, delle sue identità e differenze – che alimenti le conseguenti “politiche” – ovvero una serie di programmi e di realizzazioni. Di una politica – politiche, ispirate alle encicliche Laudato sì e Fratelli tutti, siamo in trepidante attesa più che del vaccino anti Covid.
Forse queste tre parole sono troppo elementari, però mi sono sorte spontanee, quasi una piccola sintesi di tanti anni di militanza gratuita. E credo possano aiutare a ridare alla politica lo spin, l’inclinazione affettiva giusta. Tutto il resto seguirà.