La pandemia che stiamo attraversando non ha cambiato le priorità del mondo del lavoro, semmai le ha rese più urgenti. La principale è quella di creare le condizioni per una crescita economica e sociale realmente basata sul lavoro e sulla persona, capace di ridurre le disuguaglianze sociali, oggi dolorose e intollerabili.
Da questo punto di vista è incoraggiante notare come le parole di Papa Francesco sul lavoro siano in sintonia con le più avanzate esperienze imprenditoriali e sindacali, quelle che di solito chiamiamo “eccellenti”. In che cosa, infatti, eccellono? Una volta un imprenditore brianzolo mi disse che un’azienda è come un giardino, in cui crescono molte piante. Il bravo imprenditore deve saperle curarle tutte contemporaneamente. Non solo alcune, tutte: la salute dei lavoratori, la formazione, l’innovazione tecnologica, i cambiamenti organizzativi, l’attenzione all’ambiente. Senza le une non cresce la produttività, dunque non resta nulla da distribuire, senza le altre non cresce proprio niente.
Ciò era vero prima del Covid-19, quando ebbi modo di visitare decine di fabbriche italiane per capire come veniva affrontata dalle persone, a ogni livello gerarchico, la rivoluzione 4.0, dedicando a questa indagine il libro intitolato La nuova chiave a stella (Guerini editore), dedicato a Primo Levi. Ed è vero anche oggi, quando vediamo che le buone aziende (comprese quelle da me raccontate) sono le più scrupolose ad applicare i protocolli di sicurezza anti-contagio, a proteggere i propri dipendenti, a sperimentare soluzioni di smart working degne dell’aggettivo smart, “intelligente”.
Centralità dei lavoratori, capacità di collaborare, organizzazioni fondate sulla responsabilità dei singoli e dei gruppi, con i diritti e i doveri di ognuno, sono le piante del giardino che si chiama impresa, ma che si chiama anche società. La centralità dell’uomo e della donna nel processo produttivo rappresenta uno degli elementi, forse il principale, delle innovazioni in corso nel mondo del lavoro. Questa centralità, con tutti i problemi che pone, è resa necessaria dai nuovi sistemi organizzativi. Una fabbrica (o un ufficio) sono davvero intelligenti se sanno rispondere in fretta e in modo personalizzato alle richieste dei clienti. Reattività e personalizzazione presuppongono strutture organizzative in cui i lavoratori giocano un ruolo attivo a tutti i livelli.
Lo si è visto, anche in questi mesi, dalla rapidità con cui alcune aziende hanno saputo riorientarsi verso attività utili ad affrontare il contagio. Non è un caso che nelle grandi aziende – che sono il traino della filiera dell’innovazione – un’alta percentuale di operai è diplomata e, in alcuni casi, laureata. Operaio aumentato è la definizione che è stata coniata per definire questa figura professionale in crescita, che sempre più mette in campo, oltre alle braccia, anche il cervello. Aumentato perché creativo, coinvolto, responsabile. Capace di gestire i dati, compiere una pluralità di operazioni, collaborare con gli altri e mettere al servizio del lavoro le stesse abilità digitali che utilizza nella vita privata.
A proposito. L’Italia è la seconda potenza industriale d’Europa ma è agli ultimi posti per livelli retributivi. Da anni. Il lavoratore, che giustamente viene richiamato all’etica dei doveri, del coinvolgimento e delle responsabilità, non può essere “aumentato” soltanto di nome. Deve vedersi riconosciuto in busta paga quel “di più” che gli si chiede in termini di partecipazione creativa al lavoro e di aumento della produttività. Dev’essere sostenuto, nella sua crescita, da un adeguato supporto formativo, nell’interesse suo e dell’impresa.
Cito un caso recente, in cui l’Italia e l’intera Europa hanno visto che cosa può fare una buona gestione, collaborativa e competente delle persone. Mi riferisco alla costruzione del ponte Genova San Giorgio al posto del Morandi, crollato nel 2018 con 43 vittime. Primo Levi, che raccontò nel magnifico La chiave a stella che cos’è l’amore per il lavoro ben fatto, l’avrebbe apprezzato.
A Genova si è vista la professionalità di mille persone che hanno lavorato insieme alla sua realizzazione: ingegneri, tecnici, operai, provenienti da tutto il mondo. Non solo un bravo sindaco, non solo il genio dell’architetto Renzo Piano, ma un grande lavoro di squadra, tanto teorizzato nei convegni quanto poco praticato nella realtà.
Poi la tecnologia. Dove s’è applicata l’arte, tutta italiana, di mettere insieme bellezza e funzionalità.
Quel ponte è un simbolo di riscatto. Uno stato dell’arte di quanto di meglio la tecnologia e l’intelligenza umana mettano a nostra disposizione. Come quell’impalcato che consente manutenzioni minuziose: può essere attraversato all’interno dei suoi corridoi, mentre i robot trasmettono informazioni in tempo reale, segnalando con foto imperfezioni e problemi alla stanza di controllo che governa l’infrastruttura.
L’augurio è che quel ponte diventi un modello di riferimento per l’impresa e per il sindacato italiani.