Il sindacato di fronte alla necessità di immaginare nuovi linguaggi della rappresentanza
Ugo Morelli
Quando un sistema crolla, il linguaggio perde ogni presa sul reale. Le parole invece di catturare cose e concetti come dovrebbero, restano sospese nel vuoto, inapplicabili. Come dire “ti amo” e non sentire l’amore.
La coscienza umana opera nel tempo e in un flusso continuo, un flusso di pensieri, sentimenti, sensazioni e desideri: visto da una prospettiva relazionale il sé è un’entità temporale e spaziale in un processo di movimento continuo. Invece di essere i soggetti consapevoli dei propri desideri, sono gli oggetti diversi da noi a diventare la causa dei nostri desideri, come ha mostrato ampiamente Jaques Lacan. Invece di essere consapevoli dei nostri desideri, diventiamo più radicalmente decentralizzati nella nostra soggettività. Sono, in fondo, i discorsi a modellare e costruire anche gli spazi del pensiero in cui possiamo abitare.
Il confronto democratico interno e la formazione come elaborazione continua dell’esperienza, fecondati da pensieri anche divergenti e complessi, sono alcune delle vie per giungere finalmente a dubitare delle certezze, soprattutto linguistiche e ideologiche, in cui il sindacato sembra incagliato.
Mancano le parole per dire il presente
Mancano le parole per dire il presente e il presente sfugge alla presa che richiederebbe azioni adeguate e necessarie per una rappresentanza alla temperatura del presente. Dire è fare e il linguaggio è azione: tra la parola e il contesto c’è o non c’è un legame che ne determina l’efficacia e il medium è la relazione. Perché la relazione sia capace di incidere efficacemente è necessario che vi sia risonanza fra parola e contesto. Il contesto del lavoro e i significati del lavoro sono cambiati, e le parole che si usano per parlarne sembrano svuotate di presa e di senso. Jorge Luis Borges nell’Aleph scrive: “…non c’è proposizione che non implichi l’universo intero; dire la tigre è dire le tigri che la generarono, i cervi e le testuggini che divorò, il pascolo di cui si alimentarono i cervi, la terra che fu madre del pascolo, il cielo che diede la luce alla terra” [p. 117, Feltrinelli, Milano 1990].
Quel che più di tutto costituisce un problema è che la crisi di presa sulla realtà, per sviluppare ed estendere la rappresentanza, aumenta la disposizione a confermare l’ordine precedente e non apre al dubbio. Una resistenza contro il dubbio è molto diffusa e configura una sorta di blocco al cambiamento.
Esercita il dubbio e stai a vedere cosa ti offre il caso
“Esercita il dubbio e stai a vedere cosa ti offre il caso”, c’era scritto a mano su un foglio incorniciato in modo semplice che Gianni Pellicciari, più che un maestro per me, si portava nei diversi spazi in cui abbiamo lavorato insieme. Dalla mansarda che era il nostro ufficio in via Belle Arti 42 a Bologna, fino a Capolago, sul lago di Lugano, o al Politecnico di Zurigo.
Ecco: le possibilità di emanciparsi mediante il linguaggio e di innovare la rappresentanza attraverso occhi nuovi che esigono anche la transdisciplinarità, il guardare da più punti di vista il lavoro non solo secondo le sue forme tradizionali, sono tutte opportunità contenute lì, in quella frase.
Non saranno certo il calcolo e la ragione soltanto a far trovare la strada per l’estensione della rappresentanza. Sono necessari l’ascolto attivo delle proprie e delle altrui emozioni che scaturiscono dalle esperienze reali della vita, dentro e fuori dei luoghi di lavoro, e l’attenzione a cogliere tutto quanto è cambiato in ogni vita e in ogni contesto, per ricavarne linguaggi adatti a narrare il presente, a raccontarlo, a condividerlo, a rappresentarlo.
Quando un paradigma crolla si tratta di fare un salto nell’ignoto, di misurarsi con il vuoto, ma insieme si può fare. Se una visione del mondo diventa indifendibile e le cosiddette verità tradizionali sono messe in discussione, ci si trova in difficoltà. E allora è il momento di attingere alle proprie e alle altrui emozioni. I pensieri, anche quelli innovativi, sono strettamente interconnessi con il linguaggio, e entrambi sono sostenuti e generati dalle emozioni.
Inutile dire che un silenzioso e tacito maschilismo con prevalenza del codice affettivo maschile caratterizza la cultura e gli stili del sindacato, e ciò non facilità il riconoscimento della generatività interdipendente tra emozioni, pensiero e linguofaggio.
Il linguaggio basato sulla transdisciplinarità è democrazia della conoscenza
Il linguaggio si può innovare connettendolo ai fenomeni; ci vuole un impegno e un rigore sostenuti in quanto è principalmente una questione di metodo, e il metodo si sa è la via per non impazzire e far vivere la democrazia, non solo nella società ma anche nella ricerca. Ci vuole l’investimento formativo in più sguardi disciplinari resi interdipendenti dall’attenzione ai fenomeni. Il linguaggio basato sulla transdisciplinarità è democrazia della conoscenza. E la ricerca, che nulla ha a che fare con la verità, è principalmente esercizio del dubbio. Quel dubbio oggi più che mai necessario per condurre un esame di realtà come condizione per il cambiamento.
Così come è attenzione e cura per l’oggetto della conoscenza, ovvero orientamento al fenomeno e non centratura solo su uno sguardo, quello di una sola disciplina, che avrebbe un potere monopolistico e totalitario per la spiegazione scientifica e la comprensione della realtà.
Ha scritto Michael S. Gazzaniga: “Abbiamo bisogno di imparare dalle esperienze dei nostri colleghi di altre discipline scientifiche, e quelli che lavorano nel settore delle neuroscienze sanno che tale apprendimento è possibile” [Neuroscienze cognitive, Zanichelli, Bologna 2015; p. 672].
L’interdisciplinaritá è l’antidoto alla crisi dei linguaggi che tendono alla saturazione col tempo, comunque.
“Quando un sistema crolla, il linguaggio perde ogni presa sul reale. Le parole invece di catturare cose e concetti come dovrebbero, restano sospese nel vuoto, inapplicabili”, ha scritto Andri Snær Magnason [in Il tempo dell’acqua, Iperborea, Milano 2020; p. 12].
Corpo non mente
Gli ostacoli ad accedere a linguaggi inediti orientati alla transdisciplinaritá sono in primo luogo di natura affettiva. Questa è l’ipotesi che si intende difendere con questo contributo. Basterebbero due richiami per giustificare l’ipotesi. Quando Carlo Rovelli si domanda: “Ma perché non possiamo descrivere dove sia e cosa faccia l’elettrone quando non lo guardiamo?” [Helgoland, Adelphi, Milano; p. 33], ci sta invitando in realtà a interrogarci sui limiti della nostra mente, prima ancora che sulle caratteristiche elementari della materia. Per comprendere qualcosa e uscire dal tunnel affettivo e cognitivo, dalle illusioni di certezza e dall’abitudine a perseverare che ci creiamo, soprattutto quando le istituzioni di appartenenza ci sostengono, candidate come sono a preservarsi così come sono, dobbiamo investire in eccedenza e mettere in discussione i tunnel dell’io. Quell’io che, come sostiene anche Rovelli, è il residuo di una metafisica errata: “il risultato dell’errore frequente di scambiare un processo per un’entità” [p.180]. Lo stesso “io” che “non è altro che l’insieme vasto e interconnesso dei fenomeni che lo costituiscono, ciascuno dipendente da qualcosa d’altro” [p. 151].
È quindi la relazione a fondare l’individuo: “Partire dall’esperienza per guidare la ricerca neuroscientifica sulla natura umana significa adottare una strategia bottom-up che privilegia il corpo come campo d’indagine “ V. Gallese, Corpo non mente. Le neuroscienze cognitive e la genesi di soggettività e intersoggettivitá, in Educ Sent, 20 2013, p. 18
Ostacoli al cambiamento
Le neuroscienze affettive, con i loro proficui metissage con la psicoanalisi, hanno consentito di comprendere molti aspetti dell’incidenza del sistema sensorimotorio nel renderci gli animali che siamo. Tra le altre possibilità ci hanno fornito le basi per comprendere le ragioni dell’attaccamento alle unità di conoscenza che ci costituiscono e i meccanismi di difesa che esprimiamo di fronte a ogni cambiamento. Perché abbiamo tanta difficoltà ad aumentare e moltiplicare i punti di vista possibili, rassicurandoci nei recinti affettivi dell’ordine precedente e delle discipline? Perché ci è così caro l’ermo colle che dal resto dell’orizzonte il guardo esclude? Quali sono i colli rassicuranti dietro i quali ci rassicuriamo fino all’autoreferenzialitá? Un compito di particolare importanza è capire le buone ragioni della rassicurazione che ci deriva dall’ordine precedente e dai vincoli disciplinari.
Non sono pochi gli studi che hanno cercato di evidenziare le ragioni profonde che rendono difficile la disposizione a cambiare e a innovare. Erique Pichon Riviere ha messo in luce l’angoscia epistemofilica e Gaston Bachelard ha parlato di ostacolo epistemologico. I riferimenti sono, quindi, alle resistenze e alle difese affettive e cognitive a cambiare idea. Facciamo i conti, a livello individuale e collettivo, con parti di noi stessi che si oppongono o non riescono a cambiare, rassicurandosi nella consuetudine e nelle discipline. Il corto circuito tra consuetudine e discipline mette in atto un meccanismo in base al quale per cambiare dovrei ampliare i confini della conoscenza e per ampliarli dovrei rompere la consuetudine: allora mi rassicuro nell’ordine esistente.
Consistenze immateriali
Il riconoscimento della centralità del corpo e del sistema sensorimotorio per la nostra conoscenza incarnata, oltre ad aiutarci a comprendere la complessità del conoscere per noi, evidenzia la naturalità dell’immateriale. Immateriale è il linguaggio, così come la mente e la coscienza, ma ciò non vuol dire che non siano consistenti: sono consistenze immateriali, appunto, con effetti e conseguenze precise e definibili nella nostra esperienza e nelle nostre vite. Dovremmo parlare perciò di “linguaggio-corpo” o di “corpo-cervello-mente”.
La ricerca di un neuroscienziato come Vittorio Gallese insieme a lavori di molteplice provenienza disciplinare portati avanti anche da noi, hanno evidenziato processi costitutivi essenziali della nostra esperienza come l’embodied cognition, ovvero la dimensione incarnata dei processi conoscitivi e di apprendimento, dove l’azione corporea in relazione con altri corpi mostra di essere alla base della notra stessa capacità di conoscere. L’embodied simulation o risonanza incarnata si propone ormai come un meccanismo in grado di aiutarci a riconoscere le caratteristiche dell’intersoggettività alla base della nostra individuazione, come animali sociali per natura, caratterizzati da una continua ricorsività di legame che porta a modularci e rimodularci continuamente con gli altri attraverso l’intentional attunement. Fino al riconoscimento delle nostre caratteristiche eusociali che ci fanno esseri sociali connessi agli altri mediante processi di shared manifold o molteplicità condivisa. Alla base di ognuno di questi processi pare agire fin dalla fase prenatale una risonanza affettiva, affective resonance, che ci fa apparire l’individuazione come una possibilità e un esito emergente dalla condizione di essere indivisibili dagli altri.
Così legati, eppure…
La memoria, per degli esseri come noi umani, mentre si ridefinisce così profondamente il significato stesso di essere umano, assume le caratteristiche di una continua ri-narrazione di noi stessi e del mondo e si configura come presente ricordato. È come se apprendessimo continuamente dalla nostra memoria facendo di volta in volta rientrare esperienze e riletture degli stessi eventi che ci hanno riguardato e che abbiamo vissuto.
Sappiamo che apprendiamo per selezione dei segnali e dei dati del mondo che trasformiamo in riconoscimento per noi, facendoli rientrare nei nostri patrimoni affettivi e cognitivi, che diventano presto taciti, diventano cioè noi stessi. La nostra autopiesi, la nostra autonomia creativa, quella con cui ci creiamo, sostiene i processi con cui emergiamo agli altri e a noi stessi, come ha mostrato fin da molti anni fa Francisco Varela combinando in modo transidiciplinare le riflessioni contenute in Scienze e tecnologie della cognizione [hopefulmonster, Firenze 1986].
Ne ricaviamo che il vincolo dell’appartenenza a un certo sistema di pensiero, a certe credenze, alla rassicurazione derivante da un apparato di certezze è più potente della disposizione a cambiare idee e comportamenti. Eppure possiamo riconoscere le crisi e i fallimenti di quei linguaggi e di quei modi di pensare e agire, ne siamo capaci, ma è necessario investire pensiero, formazione e azione per riuscirci.
Qualcosa è successo o sta succedendo se un premio Nobel per l’economia, Joseph E. Stigliz scrive: “Il PIL (prodotto interno lordo) è usato quasi universalmente per misurare il grado di benessere di una società. In realtà, non è niente più di una misurazione delle attività al prezzo di mercato” [Le Scienze, ottobre, n. 626, 2020]. Continua Stigliz: “Il PIL non misura salute, istruzione, stato dell’ambiente e molti altri indicatori della qualità della vita “. “Dopo la crisi del 2008 il PIL degli Stati Uniti è aumentato ma gli indicatori relativi alla salute sono peggiorati”.
Siamo di fronte a una crisi di pensabilità e, quindi, di azione possibile. Ma l’etica è azione, da cui scaturiscono scelte ed è strettamente connessa ai linguaggi con cui quelle azioni creiamo e ricreiamo. Magari in minoranze attive che ci provano.
È dai pochi che può nascere il molto.