Democrazie senza democrazia

Autore

Alfonso Maurizio Iacono
già professore ordinario di Storia della filosofia all’Università di Pisa, dove continua la sua attività di docente. E’ stato Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pisa (2003-2012) nonché Presidente del Sistema Museale d’Ateneo (2016-2017). Ha collaborato e collabora, tra l’altro, ai quotidiani Il Manifesto e Il Tirreno. Tra i suoi lavori più recenti: Autonomia, potere, minorità, Feltrinelli, Milano, 2000; (con S. Viti), Le domande sono ciliegie, Manifestolibri, Roma 2000; Caminhos de saida do estado de menoredade , Lacerba, Rio de Janeiro 2001; Il borghese e il selvaggio, ETS, Pisa 20032; (con S.Viti), Per mari aperti, Manifestolibri, Roma 2003; Storia, verità, finzione, Manifestolibri, Roma 2006; L’illusione e il sostituto, Bruno Mondadori, Milano 2010; L’evento e l’osservatore, ETS, Pisa 20132; History and Theory of Fetishism, Palgrave MacMillan, New York 2016; Storie di mondi intermedi, ETS, Pisa 2016; Il sogno di una copia, Guerrini Scientifica, Milano 2016; Studi su Marx, ETS, Pisa 2018; The Bourgeois and the Savage, Palgrave MacMillan, New York, 2020.

Il sistema democratico moderno si sta basando su tre fattori: scarsa partecipazione, apatia politica e ignoranza pubblica 

Queste di oggi sono democrazie senza democrazia. Hanno tutti gli elementi istituzionali di una democrazia, diritto di voto, elezione dei rappresentanti, costituzione, per non segnalarne che i più ovvi e macroscopici, eppure esse convivono con la diseguaglianza sociale ed economica mentre i diritti delle minoranze vengono, più o meno ipocritamente, calpestati. Riconosciuti in principio e negati nei fatti. La sensazione che si prova oggi è assai simile a quella che proviamo quando, entrando in un tribunale, leggiamo: “la legge è uguale per tutti”, un principio giusto, eppure sappiamo per esperienza che le cose non stanno così, che la legge, di fatto, non è uguale per tutti, che i ricchi, onesti e criminali, hanno ben altre possibilità di difendersi che non le personale ‘normali’, per non parlare dei poveri. Le democrazie occidentali di oggi sono il risultato di una teorizzazione proposta negli anni ’50 del secolo scorso, quando, di fronte alle società di massa, bisognava collocare il sistema politico delle élites all’interno di regole democratiche capaci di legittimare la circolazione alternata dei gruppi di potere e dei partiti. Il grande storico antico Moses Finley, paragonando la democrazia degli antichi a quella dei moderni, aveva rilevato che il sistema democratico moderno (e pensava soprattutto, ma non solo, a quello anglosassone), stava basandosi su tre fattori: scarsa partecipazione, apatia politica e ignoranza pubblica. Finley scrisse queste cose nel 1972. Oggi, a distanza di quasi cinquant’anni, possiamo dire che le teorizzazioni di Lipset e di Schumpeter si sono realizzate pienamente: le nostre democrazie sono basate sulla scarsa partecipazione, sull’apatia e sull’ignoranza politica. I social confermano e legittimano questo processo, accentuando forse la questione del consenso, che, in quanto tale, non può essere considerato un elemento determinante della democrazia. Finley si domandava quali rapporti potessero esserci tra l’apatia politica e il consenso e scriveva: “Il consenso di per sé non necessariamente è un bene; in Germania la soluzione finale raccolse un consenso sufficiente, se non proprio l’unanimità, e a determinare il consenso l’unanimità non è neppure richiesta”. 

L’ideologia del neoliberismo è basata sulla fine delle ideologie e della storia e sull’assenza programmata di alternative future 

Ma Finley rifletteva sulla democrazia negli anni ’70, un’epoca in cui, nonostante tutto, era presente lo stato sociale. E oggi? I tre fattori senza dubbio si sono rafforzati, tanto più che l’aumento esponenziale dei mezzi di comunicazione di massa sta creando una massa di “isolati e connessi” e si accompagna alla situazione paradossale secondo cui all’aumento dell’informazione si fa sempre più opaco il velo d’ignoranza. Ma non si tratta solo di questo. Con il neoliberismo i tre fattori si accompagnano all’aumento delle diseguaglianze sociali e allo smantellamento dello stato sociale. Lo stiamo vedendo, in questa pandemia, con la sanità, ma anche con la crisi della scuola. L’ideologia del neoliberismo è basata sulla fine delle ideologie e della storia e sull’assenza programmata di alternative future (TINA: There is no alternative). L’ideale è lo stato minimo, e ogni intervento delle istituzioni, anche in chiave sociale, viene vissuto come un atto autoritario da respingere in nome della libertà individuale e collettiva. Fermo restando che ci si deve difendere dall’autoritarismo repressivo dello stato, l’identificazione tra stato sociale e stato repressivo porta inevitabilmente a un rapporto insano tra istituzioni, leggi, diritti e individui. La libertà che dovrebbe trovare il suo limite nel rispetto della libertà dell’altro si trasforma in individualismo autoreferenziale. In tale contesto va collocata la crisi della rappresentanza democratica, che è stata determinata in gran parte dalla fine dei partiti politici intesi come portatori organizzati di visioni del mondo e di progetti di lungo periodo. L’identificazione assoluta tra i partiti e le rappresentanze istituzionali, così come l’arretramento verso una forma arcaica di legittimazione dei leader, sta facendo sì che la politica ha perso il senso progettuale del futuro. Tutto si esaurisce nell’arco istituzionale dei tempi elettorali e dunque nel consenso a tempo breve. Ciò esclude la possibilità di riflessioni progettuali di lungo periodo che un partito aveva e poteva avere. E questo in un futuro che incombe minaccioso sul presente dal punto di vista ambientale e sociale, mentre il presente è governato dalle grandi imprese industriali e finanziarie, le quali agiscono negli interessi dei loro azionisti. Infine, la cosa buona e meravigliosa, la faccia opposta dell’egoismo e dell’interesse, il volontariato, rischia oggi di restare confinato a fare da stampella a un mondo che nella sua ‘normalità’ appare sempre più patologico. Si tratta di ritornare ai vecchi partiti? Certamente no. Ma neanche fingere che con questa democrazia senza democrazia si possa andare verso il meglio e che, come si dice, “andrà tutto bene”. 

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