Abbiamo bisogno di riconoscere la complessità dei fenomeni e sviluppare cultura e capacità per imparare dal fatto che, appunto, i fenomeni oggi sono decisamente complessi, cioè si presentano più volte intrecciati tra loro. Questo ci potrebbe portare a riconoscere che l’unità principale di riferimento sia per capire che per intervenire, sia per conoscere che per agire è la relazione
Crisi ambientale, disuguaglianze e impoverimento non sono tre fenomeni ma uno. Diventano tre per delle menti impoverite e indifferenti, alienate e assuefatte all’accettazione dell’esistente, come la maggior parte delle nostre menti nel tempo in cui viviamo. Proprio quando dovremmo divenire capaci di individuare i fattori comuni fra fenomeni diversi, anche nei casi in cui quei fenomeni siano particolarmente distanti tra loro, o almeno tali appaiono, mostriamo di non essere capaci di fare vuoto dentro di noi per lasciare spazio alla comprensione delle interdipendenze tra ciò che ci accade sotto gli occhi ed entra sistematicamente nelle nostre vite, condizionandole e mettendone in discussione prospettive e durata, e spesso, come accade con la pandemia, mettendole a rischio. Non ci riesce di mettere in pratica l’indicazione che ci deriva da uno dei classici più belli e profondi della letteratura di tutti i tempi: “Egli vide dal vuoto le immagini, dalle immagini nacquero le passioni, le passioni si convertirono nuovamente in immagini, e dalle immagini tornò al vuoto” [Ts’ao Hsüeh-ch ‘in, Il sogno della camera rossa, BUR, Milano 2008]. Se prestassimo attenzione dal vuoto di relazioni tra noi esseri umani come specie vivente sul pianeta terra e il sistema vivente in cui viviamo, mettendoci la giusta passione, noi potremmo renderci conto della condizione in cui siamo e del progressivo processo di aumento dell’impoverimento e delle disuguaglianze a scapito di numeri sempre più elevati di esseri umani. Vi sono collegamenti divenuti necessari e ogni riflessione o azione non possono prescinderne.
Collegamenti necessari
Proviamo a fare un esercizio collegando tra loro tre eventi che sembrerebbero non avere alcuna connessione. Il calo dell’occupazione, con le fosche previsioni per l’autunno, in che modo si collega con il Leone d’oro assegnato al film Nomadland al Festival del cinema di Venezia e i due eventi che rapporto hanno con queste tre cifre: 187; 680mila; 96? Le cifre indicano, rispettivamente, la prima, il numero dei paesi che nel 2019 hanno firmato un accordo promosso dalle Nazioni Unite, che aggiunge la plastica ai rifiuti pericolosi controllati dalla convenzione di Basilea; la seconda cifra indica le tonnellate di rifiuti di plastica spedite dagli Stati Uniti – primi consumatori di plastica al mondo – all’estero nel 2019; la terza cifra segnala i 96 paesi che hanno preso quei rifiuti, tra Africa e America Latina. Oggi gli Stati Uniti hanno attivato un conflitto diplomatico con il Kenia, perché ha emanato una legge particolarmente restrittiva con la quale si sottrae al numero dei paesi disposti a ricevere i rifiuti. Del resto, il modello di sviluppo che ci siamo dati e di cui siamo responsabili è basato sull’assunto implicito della disuguaglianza radicale e progressiva: i paesi arricchiti prelevano materie prime a costi minimi dai paesi impoveriti e poi scaricano in quei paesi gli scarti. Per poter funzionare il modello di sviluppo dominante necessita di questi processi costitutivi. Mentre la vulgata moralista e interessata continua a invitare alla resilienza, parola quanto mai perniciosa, ci ostiniamo a non apprendere da quello che accade e a riflettere su come cambiare modelli di sviluppo e stili di vita. Chi propone la resilienza come soluzione dovrebbe vedere il film che ha vinto a Venezia. Non siamo metalli, la cui resistenza a sollecitazioni anche estreme si misura, appunto, con la loro resilienza. Siamo persone che nel lavoro e nelle possibilità di vivere relazioni significative e portatrici di riconoscimento, trovano il senso della vita. Oltre un certo livello di sollecitazione semplicemente ci spezziamo e diventiamo nomadi dell’esistenza. Neppure i traumi, però, mostrano di aiutarci ad imparare dall’esperienza. È a questo livello che dobbiamo cercare ed impegnarci. Come rivedere il nostro modello di sviluppo e i nostri stili di vita dovrebbe essere il primo ambito di approfondimento e ricerca di vie di cambiamento, di fronte alla pandemia. Sia i sindacati che i datori di lavoro mostrano di essere alla ricerca di soluzioni contingenti per riattivare i processi produttivi e lavorativi così come li abbiamo conosciuti finora. Si parla di ripresa, di ripartenza, di conferma dell’esistente, in sostanza. Ma la pandemia non è venuta dal nulla e, soprattutto, ha evidenziato tutti i limiti dei nostri modi di vivere, di produrre, di lavorare e di consumare. Quei dati sulla plastica possono aiutarci a comprendere, tra tutte le altre cose, che per funzionare un modello di sviluppo come quello attuale, può riguardare il benessere di solo una parte della popolazione; crea disuguaglianza ed emarginazione sempre più acute e vaste; necessita di interi paesi subordinati e impoveriti che facciano da pattumiera dei paesi dominanti; e tutti insieme distruggiamo le stesse condizioni della nostra vita sul pianeta e nei luoghi dove viviamo. Solo una trasformazione ecologica del sistema produttivo e una diversa concezione del lavoro basata sui significati e su una redistribuzione dei tempi di lavoro, come abbiamo sostenuto nel numero di agosto di Passion&Lavoro, possono essere alla base di una nuova civiltà esistenziale e lavorativa.
Lo sfaldamento del lavoro
Nel secondo trimestre 2020 l’input di lavoro misurato in termini di Ula (Unità di lavoro equivalenti a tempo pieno) subisce una eccezionale diminuzione sia sotto il profilo congiunturale (-11,8%) sia su base annua (- 17,0%), come conseguenza della riduzione delle ore lavorate a seguito delle notevoli perturbazioni indotte dall’emergenza sanitaria. L’andamento del quadro occupazionale si è sviluppato in una fase di forte flessione dei livelli di attività economica, con il Pil che nell’ultimo trimestre segna una diminuzione congiunturale del 12,8%. L’occupazione risulta in forte calo sia rispetto al trimestre precedente sia su base annua; il tasso di occupazione destagionalizzato è pari al 57,6% (-1,2 punti in tre mesi). In questo contesto, l’insieme dei dati provenienti dalle diverse fonti consente di evidenziare i seguenti aspetti:
A livello congiunturale diminuisce l’occupazione dipendente in termini sia di occupati (-2,1%, Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro) sia di posizioni lavorative (-3,9%). Tra le posizioni lavorative dei dipendenti del settore privato extra-agricolo, il calo congiunturale si registra nell’industria in senso stretto (-0,9%, -35 mila posizioni), nelle costruzioni (-0,8%, -7 mila posizioni) e, soprattutto, nei servizi (-5,5%, -462 mila posizioni). Nel secondo trimestre 2020, le attivazioni sono state 1 milione 548 mila e le cessazioni 1 milione 884 mila, entrambe in forte calo in confronto al trimestre precedente (-39,5% e -24,4%, rispettivamente).
A livello tendenziale l’occupazione dipendente subisce una consistente riduzione in termini sia di occupati (-3,4%) sia di posizioni lavorative riferite ai settori dell’industria e dei servizi (-4,0%). Il calo si riscontra anche nei dati delle comunicazioni obbligatorie (-174 mila posizioni lavorative rispetto al secondo trimestre del 2019) e si accentua nei dati Inps-Uniemens (-818 mila posizioni lavorative) che hanno un diverso perimetro di osservazione e misurano la situazione puntale a fine trimestre (30 giugno).
Il lavoro indipendente, secondo la Rilevazione sulle forze di lavoro dell’Istat, continua a diminuire sia in termini congiunturali (-101 mila occupati, -1,9%) sia su base annua (-219 mila occupati, -4,1%). Il calo tendenziale dell’occupazione (-841 mila unità, -3,6%) si associa alla diminuzione delle persone in cerca di lavoro (-647 mila) e alla forte crescita degli inattivi (+1 milione 310 mila).
È necessario aggiungere a questi dati l’andamento dei contratti a termine il cui rinnovo è calato di oltre un milione rispetto all’anno precedente.
La catena del disvalore
Le interdipendenze che non vogliamo vedere configurano sempre più quella che potremmo definire una catena del disvalore. Se pensiamo al rapporto che esiste fra la crisi climatica e ambientale, i movimenti di migrazione, i conflitti sociali che questi ultimi producono, il degrado delle periferie urbane, i processi di emarginazione che in quelle realtà si determinano, la crisi della qualità della vita metropolitana, le ricadute sui processi di consumo e l’alienazione sociale sempre più diffusa, noi possiamo avere davanti agli occhi un esempio di come si produce una catena del disvalore. Catene di questo genere sono particolarmente diffuse e si incrociano tra loro ricadendo nelle esperienze di vita di un numero sempre più elevato di persone. Emergono in questo modo le interdipendenze fra la disuguaglianza sociale, i processi di impoverimento l’indifferenza sociale nei confronti di coloro che hanno bisogno e la complessiva crisi di legame sociale nella quale siamo coinvolti. Gli stessi processi occupazionali sperimentano la presenza diffusa di catene del disvalore, ad esempio nell’interdipendenza esistente tra la crisi del sistema formativo, le trasformazioni del mondo del lavoro, La concentrazione di attenzione a proteggere i tutelati, la difficoltà a individuare modalità di tutela dei non tutelati e degli emarginati e i processi di impoverimento individuale e sociale che ne derivano. Abbiamo bisogno di riconoscere la complessità dei fenomeni e sviluppare cultura e capacità per imparare dal fatto che, appunto, i fenomeni oggi sono decisamente complessi, cioè si presentano più volte intrecciati tra loro. Questo ci potrebbe portare a riconoscere che l’unità principale di riferimento sia per capire che per intervenire, sia per conoscere che per agire é la relazione.
Bell’articolo, ci porta a tante riflessioni su noi stessi.
Prendersi cura della persona, della natura e dell’ambiente per preservare il mondo in cui viviamo.
Un abbraccio Gerardo