di Francesca Gennai (La Coccinella) e Flaviano Zandonai (Gruppo cooperativo Cgm)
Il lavoro costituisce un efficace elemento di riscontro rispetto agli elementi centrali e periferici che sostanziano la rappresentazione del welfare nell’ambito del più ampio comparto dei servizi
Il futuro intitola una gran quantità di documenti sul lavoro. Una produzione dove a prevalere è la ricerca delle discontinuità e degli impatti sugli ambiti più esposti alla rivoluzione tecnologica a trazione digitale. Così molte di queste analisi si risolvono in una sorta di “bollettino di guerra” dove si stima il numero di posti di lavoro che verranno bruciati da quella che si (auto)definisce “disruption digitale” per non lasciare dubbi rispetto agli intenti e alle modalità trasformative che la animano. Un’onda che si propaga ben oltre il classico ambito della produzione manifatturiera – che è in qualche modo connaturato ai diversi cicli di innovazione tecnologica – andando a investire il contesto che più contraddistingue la società contemporanea e il suo mercato del lavoro ovvero quello dei servizi. A tal proposito è interessante focalizzare l’attenzione sui cambiamenti che riguardano non tanto i contenuti prestazionali, ma piuttosto la rappresentazione sociale dei servizi. In questo settore, infatti, sembra persistere, nonostante le evoluzioni recenti, una tensione tra natura supportiva e orientamento alla creazione di valore distintivo. Nonostante l’enfasi crescente sui servizi come componente “core” del valore anche nel caso di prodotti materiali e industriali, sembra infatti duro a morire l’approccio per cui queste attività, sarebbero, letteralmente, “al servizio” dei processi produttivi “reali”. Non avrebbero quindi un valore in sé, ma derivato, nella misura in cui “si limitano” a creare spazio per altro. E nella prevalenza di questo ultimo orientamento sta un po’ la condanna del settore dei servizi, o almeno di quei segmenti che più ne risentono. Inevitabilmente si tratterà di attività complementari e quindi “a basso valore aggiunto” in termini economici ma anche di qualità della produzione e, a cascata, di valore del lavoro. Basti pensare, con un esempio di grande attualità, a molti servizi di gig economy che collocandosi in posizione marginale nelle filiere (come la consegna dei prodotti) offrono un campo aperto per tecnologie digitali in grado di ricavare (e capitalizzare) anche quote minimali di valore.
Anche il caso del welfare è rilevante in tal senso, anzi ancora più sfaccettato considerando le implicazioni legate al lavoro. Nella sua origine storica (l’epopea del welfare state) come pure nelle sue evoluzioni più recenti (il cosiddetto “secondo welfare”) si riscontrano infatti tutte le ambivalenze che ne fondano e rimescolano i contenuti rappresentativi. Se a prevalere è la funzione supportiva il welfare può essere considerato un formidabile veicolo per l’affermazione del modello economico capitalistico che per funzionare ha bisogno di estrarre valore dalle energie fisiche, psichiche e relazionali delle persone. Energie che vanno in qualche modo tutelate e rigenerate affinché possano essere costantemente reimmesse nel circuito produttivo. Ma se il welfare ha un valore in sé se ne evidenziano ben altri tratti, in particolare quelli di cambiamento sociale che riguardano i percorsi di vita delle persone (l’emancipazione femminile, la formazione dei giovani, il tempo liberato degli anziani, ecc.), le forme organizzative (principalmente pubbliche, ma anche mutualistiche, cooperative, associative) e le architetture politiche (che sostanziano il contratto sociale). Nel primo caso il welfare funziona soprattutto come redistribuzione e risarcimento (prevalentemente per via monetaria) prestando il fianco a forme di opportunismo e sperequazione. Nel secondo caso assume invece una valenza più marcatamente (ri)produttiva rispetto risorse conoscitive e socioculturali che opportunamente infrastrutturate in un’offerta di servizi indirizzata verso finalità autenticamente “pubbliche” incrementa la capacità di protezione sociale del sistema, differenziandone anche gli approcci e le modalità (dai servizi “di base” alle prestazioni specialistiche).
Il lavoro, da questo punto di vista, costituisce un efficace elemento di riscontro rispetto agli elementi centrali e periferici che sostanziano la rappresentazione del welfare nell’ambito del più ampio comparto dei servizi.
Un primo elemento riguarda il riequilibrio delle componenti pubblica e nonprofit – in particolare in campo assistenziale ed educativo – che negli ultimi vent’anni anni ha visto decrescere la prima e aumentare la seconda. E’ cruciale rispetto a questa tendenza comprendere se si tratta di un effetto di sostituzione “nudo e crudo” e quindi una sorta di “privatizzazione” per via non lucrativa, oppure se in questo passaggio si segnala anche un arricchimento dell’offerta e dei modelli di servizio. A fare da ago della bilancia in questo caso è l’applicazione del principio di sussidiarietà, sia perché abilita il protagonismo della società civile, ma anche perché contribuisce a riconfigurare il ruolo della Pubblica Amministrazione nell’incentivare (attraverso nudge come la coprogettazione) un protagonismo sociale che oggi assume anche forme diverse rispetto a quelle classiche delle istituzioni nonprofit, come nel caso della cittadinanza attiva per la cura dei beni comuni.
L’occupazione in ambito nonprofit, e in particolare nei comparti forti della protezione sociale (sanità, assistenza, educazione), è fortemente al femminile e, forse anche per questo, caratterizzata da una notevole diffusione di contratti part time con effetti facilmente immaginabili rispetto ai livelli retributivi
Un secondo elemento che può contribuire a riconfigurare la rappresentazione del welfare e, al suo interno, il peso specifico della componente lavoro, consiste nell’apporto esercitato dai soggetti imprenditoriali di origine nonprofit (principalmente cooperative sociali) visto che questi ultimi sono anche più labor intensive. L’ambivalenza che si nota in questo caso riguarda, da una parte, la tendenza all’industrializzazione dei servizi di welfare attraverso modelli di “global service” in grado di presidiare elementi di costo / efficienza e la rinascita del lavoro sociale e di rete abilitando apporti su base comunitaria anche di natura non lavorativa (volontariato, donazioni) dall’altra. Non si tratta di tendenze di per sé divergenti, ma che anzi possono convergere nella misura in cui le imprese sociali impareranno non solo ad adottare in modo pedissequo ma a far proprie in termini di cultura organizzativa tecnologie in grado di incorporare in modo “intelligente” elementi di relazionalità e condivisione nei processi produttivi.
Infine, un terzo elemento consiste nel supporto al lavoro sociale o, in termini più squisitamente di politica del lavoro, nel costruire “un welfare per chi fa welfare”. L’occupazione in ambito nonprofit, e in particolare nei comparti forti della protezione sociale (sanità, assistenza, educazione), è fortemente al femminile e, forse anche per questo, caratterizzata da una notevole diffusione di contratti part time con effetti facilmente immaginabili rispetto ai livelli retributivi. Per questo, nonostante il termine non goda più di grande popolarità tra gli addetti ai lavori, la “conciliazione” – oltre alla leva salariale sulla quale si è già operato negli ultimi anni – rappresenta il fulcro strategico e di policy anche in questo contesto. In gioco ci sono infatti i percorsi di vita di lavoratrici e lavoratori per i quali l’equilibrio psicosociale rappresenta un elemento di ben-essere in sé e al tempo stesso la principale condizione che determina la qualità del loro operato spesso rivolto a persone fragili. Ma riguarda inoltre la possibilità di rigenerare un potenziale di partecipazione alla vita organizzativa (ad esempio in veste di soci) che rappresenta un valore distintivo delle istituzioni nonprofit e che forse oggi deve ritrovare smalto anche per attrarre nuove generazioni orientate a “fare la differenza” in termini d’impatto sociale del loro lavoro.