Il linguaggio come responsabilità

Autore

Maria Grazia Cangelli
Maria Grazia Cangelli, Direttrice della Comunicazione e delle Pubbliche Relazioni presso il Gruppo Editoriale San Paolo.

L’uomo agisce come se fosse lui a forgiare e a dominare il linguaggio, mentre è il linguaggio che resta signore dell’uomo. […] Il linguaggio è il più alto e, ovunque, il più importante di quei consensi che gli esseri umani non sanno mai articolare valendosi soltanto dei propri mezzi. 
(Martin Heidegger) 

Notizia e linguaggio 

Nel mondo accadono un numero enorme di eventi in ogni momento. Eventi grandi o piccoli, brevissimi o magari che durano secoli. Che coinvolgono una persona o tante, magari tantissime persone. Ma quand’è che qualcuno di questi eventi diventa una notizia? Quand’è che qualcosa diventa uno scandalo, un trend topic, una questione che tiene banco presso l’opinione pubblica? Trovo interessanti queste tematiche perché consentono di esaminare nel dettaglio il ruolo dei media nella elaborazione collettiva della realtà.  

Nel mio lavoro ho imparato ben presto che il concetto di notizia come di un qualcosa che, per così dire, si manifesta nella realtà e che va meccanicamente colto come un frutto ormai maturo è quantomeno ingenuo. Contributi fondamentali già a partire dagli anni ‘70 ed ‘80 iniziano a riflettere approfonditamente sulle condizioni necessarie per cui nasca, prosperi e poi muoia quella sorta di essere vivente chiamato notizia.  

“Construire l’événement” di Éliséo Véron, analizza in modo approfondito la nascita e lo sviluppo del caso giornalistico attorno all’incidente alla centrale nucleare di Three Mile Island negli Stati Uniti. L’autore ricostruisce come la stampa abbia preso una serie di notizie d’agenzia e le abbia plasmate fino a creare una narrazione altamente coinvolgente per il grande pubblico ed atta ad essere ripetuta ed a suscitare curiosità infinite volte. Véron scava con acume nel modo in cui i giornalisti hanno ben soppesato la notiziabilità dei fatti e l’abbiano utilizzata in modo profittevole per catturare l’attenzione del pubblico. Certamente la notizia ha una connessione con taluni fatti che si manifestano nella realtà oggettiva, ma guai a ritenere questa connessione scontata, meccanica o, comunque sia, retta da dinamiche chiare, nette e ripetitive.  Interessante notare che vi sono eventi duraturi che, similmente al Mont Saint-Michel, ciclicamente acquistano o perdono lo status di notizia, come ad esempio il caporalato (Malizia, 2003). 

Direi che corriamo il rischio di pensare che la “caccia alla realtà” come criterio di validazione della notizia ci metta al riparo da qualsiasi problema, anzi da qualsiasi intenzionalità e responsabilità. In parole povere, corriamo il rischio di giudicare il linguaggio come qualcosa di trasparente, di neutro, di meramente servente. Non è così. Il linguaggio porta con sé dei valori, delle priorità e più in generale una descrizione del mondo che può avere un’influenza molto forte sull’ascoltatore. De Saussure sottolineava come l’attività mentale, al netto del linguaggio, risulti un magma neurale sostanzialmente informe. Usava questa immagine per spiegare come sia il nostro linguaggio che dà vita al nostro mondo e che senza il linguaggio, il mondo, lungi dall’esistere ma non poter essere comunicato, proprio non esiste per noi. Ignorare ciò significa consentire al linguaggio di poter essere una sorta di cavallo di Troia. Si tratta d’un cavallo di Troia che non ha necessariamente un astuto Ulisse dietro, ma che comunque è atto a rinforzare, determinare o destabilizzare delle configurazioni della realtà e delle scale di valori, a cristallizzare nuclei di concetti rendendoli difficilmente discutibili. 

Il linguaggio è un fenomeno intrinsecamente sociale  

Nei linguaggi umani non c’è proposizione che non implichi l’universo intero.  
(Jorge Luis Borges) 

Non si abita un paese, si abita una lingua. Una patria è questo, e niente altro.  
(Emil Cioran) 

Una volta acquisita la consapevolezza che è il linguaggio a creare il mondo, potrebbe venire spontaneo il desiderio di costruire attorno al proprio linguaggio una sorta di fortino per proteggerlo dagli altri in modo tale che non possano condizionare il mondo che si esperisce. Tale impresa sarebbe gracile ed ingenua in quanto, come vedremo, il linguaggio, se da un lato determina il mondo, dall’altro è un fenomeno eminentemente sociale. 

C’è un notevole consenso sul fatto che, nelle società primitive, la caccia, la suddivisione del cibo e lo scavenging, siano stati presupposti importanti per lo sviluppo di quella capacità di condivisione delle informazioni contenuta nel linguaggio umano, quasi unico nel mondo animale (Isaac, 1978). Dunque linguaggio umano ed esigenze cooperative sono intimamente connessi. Forse ciò può essere apprezzato ancor meglio pensando al fatto che solo il linguaggio umano può edificare una narrazione che tratti di oggetti e realtà che non sono presenti qui ed ora. Nel 2010 una suggestiva ricerca del linguista Derek Bickertond ha illustrato come ciò possa essere nato in risposta all’esigenza di spostare in gruppo notevoli quantità di cibo, prelevandolo da grosse carcasse di animali. 

3 – Influenza del linguaggio sulla psiche: diverse lingue e diversi modi di pensare.  

Le lingue, assieme ai segni, modificano anche le idee che esse rappresentano. Le menti si formano sui linguaggi, i pensieri prendono il colore degli idiomi. 
(Jean-Jacques Rousseau) 

Nella traduzione c’è qualcosa di sfuggente e misterioso, a partire dagli aneddoti innumerevoli che genera. Si consideri l’Ulisse di Joyce. Tra le tre notevoli traduzioni di De Angelis, Celati e Biondi se ne situa una piuttosto misteriosa a cura dell’altrettanto misteriosa Bona Flecchia. Tale strana edizione, apparsa e subito ritirata per un problema di diritti è, così come la sua traduttrice apparsa dal nulla, poco più che ventenne e talentuosissima e nell’anonimato subito ritornata, un piccolo mistero editoriale. Mi capita di fantasticare che, nel passaggio da una lingua all’altra, il testo attraversi un fugace istante nel quale si trova in una sorta di forma pura. Pare quasi che osservando bene tra i complessi ingranaggi dei dispositivi atti alla traduzione, si possa scorgere qualcosa di assoluto. Se ciò è nulla più di una fantasia, è però vero che un modo interessante per cogliere le relazioni tra linguaggio e percezione del mondo è legato alle differenti lingue parlate nei vari luoghi. Come vedremo, entro certi limiti, parlare una lingua diversa significa organizzare il proprio pensiero in modo differente.  

Pensiamo ai colori. Lo spettro delle frequenze visibili è continuo, ma praticamente tutte le lingue lo spezzettano arbitrariamente in un certo numero di colori di base, che però varia da lingua a lingua. Il linguaggio ha la capacità di focalizzare la nostra attività cognitiva su taluni aspetti dell’esperienza e di favorire l’elaborazione di un concetto invece di un altro. Ciò ha delle ricadute cognitive concrete: le persone distinguono meglio tra due tonalità di colore che sono chiamate diversamente nella loro lingua.  

Ciò che è lessicalizzato, cioè trasformato in un’unità minima di lessico, attira una maggiore attività neurale e cognitiva. Un esempio illuminante è offerto da alcune lingue australiane che non consentono ai parlanti di essere approssimativi quando si riferiscono a qualcosa di lontano. Queste lingue non conoscono espressioni come “lì” o “laggiù”. Si possono costruire tali frasi relative ad oggetti lontani necessariamente facendo riferimento ai punti cardinali: dunque non “l’auto laggiù”, ma “l’auto a sud”. Ciò porta gli individui che parlano queste lingue ad avere una maggiore familiarità rispetto ai parlanti in lingua inglese relativamente ai punti cardinali e spesso a saperli riconoscere persino al buio.  

E’ ancor più illuminante notare il ruolo costitutivo giocato dal linguaggio in contesti più intimi ed evanescenti. Per far questo è utile ricorrere alla Conceptual Act Theory.  Autori come Barrett, Lindquist e Oosterwijk hanno messo in luce come le differenze tra “emozioni”, “cognizioni” e “percezioni” siano di natura puramente nominale. Ad esempio la lingua inglese ed altre portano con sè l’idea  che le “emozioni” comportino un coinvolgimento relativamente maggiore del corpo rispetto ai “pensieri” anche se le attività fisiologiche implicate sono praticamente le stesse. Estremizzando il concetto, si potrebbe dire che le emozioni esistono perchè ci sono parole per descriverle, poiché altrimenti ci sarebbero solo attività interiori molto più confuse e sfumate. 

Tale relazione tra linguaggio e comportamento, o meglio, la sua sottovalutazione, può rendere poco produttivo l’intervento su alcuni disturbi della crescita. Spesso l’attenzione di psicologi ed educatori si concentra sul comportamento, mentre sovente sono limiti nello sviluppo delle competenze del linguaggio ad essere la causa di disturbi di vario genere. (Rapporto Bercow, DCSF, 2008). 

Come ormai chiaro, una lingua incorpora in sé una scala di priorità e la trasmette a tutti i suoi parlanti focalizzando, incentivando la loro attenzione e la loro capacità cognitiva su determinati aspetti della realtà a scapito di altri. Alcuni esempi possono chiarire il concetto. Chen (2013) ha illustrato come le lingue che grammaticalmente creano un’associazione tra futuro e presente orientano i propri parlanti ad essere maggiormente lungimiranti ed incoraggiano comportamenti come la parsimonia. Non basta: i paesi che parlano queste lingue hanno tassi di risparmio medi più elevati degli altri. Galor ed altri nel 2017 sottolineano come i migranti di seconda generazione negli Stati Uniti, che utilizzano lingue che possiedono un futuro maggiormente focalizzato su eventi lontani, hanno un maggior tasso di frequenza del college. Uno studio di Feldmann (2018) riporta che le lingue che offrono la possibilità di omettere il pronome all’interno della frase, vedono i propri parlanti investire minor danaro nell’istruzione dei propri figli. L’effetto è consistente in particolare tra le femmine.  

Linguaggio, media e social media 

Ne discuto continuamente con i miei studenti. Cominciano a pensare di doversi ribellare al mezzo televisivo, esattamente come una generazione precedente si è rivoltata contro i genitori e il paese. Io invece dico loro che devono imparare di nuovo a guardare da bambini. A scavare il contenuto. A decifrare i codici e messaggi.
(Don DeLillo)

Tutto ciò detto sinora ci deve far comprendere che, se è vero che fruire di un media significa subire l’influenza di chi lo ha creato (e in particolare in un social media, subire anche quella di chi vi partecipa), sarebbe simmetricamente sbagliato ritenere tutto ciò una sorta di indebita distorsione da parte del mondo mediatico nei confronti di un preesistente mondo scevro da tutto ciò. Come abbiamo visto, già semplicemente utilizzare un linguaggio comporta l’accettazione di una determinata visione del mondo e soprattutto di una determinata organizzazione neurale e cognitiva del mondo stesso.  

Il linguista olandese Teun van Dijk, sin dagli anni ‘80 ha ampiamente esplorato il modo con il quale i media possono alle volte perpetuare stereotipi razziali, sessuali, ecc. Nei suoi lavori come docente e saggista ha documentato il fatto che per i media sia più semplice catturare l’attenzione del pubblico descrivendo le vicende a tinte forti e facendo appello a categorie già standardizzate nella mente di chi legge.  

Da questo punto di vista è utile sottolineare il cosiddetto “effetto terza persona”. Il pubblico sostanzialmente è a conoscenza del fatto che i media lo espongono ad un rischio manipolatorio. Tuttavia il singolo ritiene di avere gli strumenti e l’intelligenza sufficiente per essere al riparo da questo rischio che invece coinvolgerebbe tutti gli altri. 

Vi sono due iniziative che mi sembra giusto segnalare. Innanzitutto l’associazione Giulia Giornaliste che si occupa tra l’altro di analizzare e combattere l’uso di stereotipi nella stampa. Inoltre Inés Olza, ricercatrice presso l’Istituto di cultura e società dell’Università di Navarra ed altri colleghi hanno creato #ReframeCovid che si occupa di mettere in luce l’uso ed abuso di metafore belliche per descrivere l’emergenza della pandemia.  

Ma anche ponendoci fuori dal mondo della pandemia che diventa mondo belligerante nella zoppia del linguaggio di media e social media, resta da capire su quali direttrici organizzare la comunicazione in modo tale che non divengano avulsi dalle istanze cruciali poste attualmente alla convivenza degli esseri umani sul nostro limitato, sempre più limitato, pianeta.   

“Perciò oggi non può che essere un’educazione alla cultura del limite e alla redistribuzione equa delle risorse. Un’educazione, in una parola, alle regole giuste nell’uso delle risorse e nella gestione della casa comune. Diversamente rischia di essere un’educazione al buon vivere solo per chi già vive bene a scapito degli altri. La sperequazione tra il giovane africano che vende vestiti sulla spiaggia e coloro che villeggiano su quella spiaggia è troppo elevata per essere tollerabile.” (Emanuela Fellin) 

È importante rifuggire dall’idea che la rivoluzione di media e social media vada a perturbare uno stato preesistente dominato da equilibrio ed armonia. Al contrario, l’epoca di questa rivoluzione eredita e somma le inquietudini e le aporie che l’hanno preceduta. Come sottolinea Paolo Benanti nel suo recentissimo Digital Age che evita di osservare solo la rivoluzione digitale tout court “oggi la fisica teorica e l’epistemologia, pur mantenendo il carattere della descrittività delle leggi scientifiche, sono alla ricerca di un nuovo concetto di causalità. Se la causalità è in crisi tanto da un punto di vista filosofico epistemologico che scientifico, la matematica può essere uno strumento abbastanza descrittivo da fungere da funzione supplente a questo gap teorico”. 

Non manca in letteratura chi sottolinea come i social network siano un supporto per comportamenti di branco anche pericolosi e per il perpetuarsi di stereotipi razzisti o comunque discriminatori. Si deve anche dire però che contemporaneamente non mancano studi che sottolineino lati positivi di questi mezzi. Nella mia personale esperienza posso dire che i social network sono un male necessario. Non vanno sottaciuti i rischi di questi strumenti, ma allo stesso tempo non va negato che essi possono (anche se spesso non è semplice) essere un ausilio per iniziative che abbiano un impatto positivo.  

Dunque, non è utile giudicare un fenomeno complesso ed ubiquo come quello dei social network in modo superficiale. Molti, ad esempio, sono convinti che il cosiddetto web 2.0 stia facendo scadere la qualità della scrittura degli studenti. Ma, ad un esame più approfondito, ciò non ha solide basi.  

Baron, 2010 e Cristal, 2008 hanno messo in luce come l’accusa nei confronti dei social network di rendere via via più povera e sciatta la scrittura degli studenti sia ingenerosa e sostanzialmente ingiustificata. I due autori separatamente, semmai, sottolineano che questo è un paradossale effetto dell’alfabetizzazione crescente che fa sì che la qualità della scrittura non si è più comunemente percepito come un elemento di distinzione sociale. Ciò porterebbe ad un generale utilizzo più informale della scrittura.  

Abbiamo usato nel titolo la parola responsabilità. E’ l’ultimo libro del Prof Morelli, “I paesaggi della nostra vita” ad attrarre l’attenzione nei confronti della deresponsabilizzazione, inquietante compagna di viaggio nell’esplorazione dei paesaggi dell’uomo contemporaneo. Il responsabile è colui che opera un “responsāre” o “responsum dare”. Colui il quale replica (positivamente) ad una richiesta di impegno, di accordo, di matrimonio. Dobbiamo saper leggere la proposta di media e social media e le proposte implicite nella lingua nella quale è scritta, per accettare o proporre modifiche alla proposta originale.  

Vi è tuttavia anche un rischio opposto che possiamo forse tratteggiare come iper-responsabilizzazione del linguaggio. Se è vero che il linguaggio non è un mero vettore, ma crea il mondo, è altrettanto vero che non si confonde con il mondo. Il linguaggio crea il mondo, ma crea anche il dibattito attorno al mondo stesso. Come hanno messo in luce J.K. Rowling, Margaret Atwood, Salman Rushdie, Noam Chomsky, Francis Fukuyama e gli altri firmatari della lettera aperta alla rivista Harper’s contro la Cancel Culture, la crescente sensibilità contro le discriminazioni ha fatto emergere, soprattutto negli ambienti progressisti, atteggiamenti di furia censoria che rischiano di inibire il dibattito a vantaggio di un opaco conformismo. 

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