Questo nuovo numero di Passion&Lavoro vuole aprire il dibattito sul senso del lavoro partendo da un saggio, che pubblichiamo, del Professor Ugo Morelli, Direttore Scientifico di questa rivista. Abbiamo chiesto a diverse personalità del mondo accademico, intellettuale, artistico, sociale e cooperativo, di aiutarci a ragionare su questo tema per individuare nuove dimensioni, appunto, di senso e significato che ci aiutino a proseguire il progetto di innovazione della rappresentanza.
Morelli, ci invita a ripensare e rivoluzionare il lavoro spiegandoci, bene, che “quando si giunge al limite, per proseguire bisogna tornare all’originario […] cercando di dare vita a una nuova origine della storia”. Dentro la grandezza di queste riflessioni, la leggerezza dell’estate mi ha soffiato nella mente la storia di quello che considero uno dei più grandi geni e intellettuali di tutti i tempi: Charles Chaplin. Una storia, la sua, di sofferenza, povertà e riscatto. Un po’ come la Storia del Sindacato e, in fondo, del lavoro. Famosa la sua frase: volevo cambiare il mondo e l’ho fatto soltanto ridere. Sembra una banalizzazione, in realtà la comicità è fatta di pianti e risate, contiene i sentimenti, che sono il motore dei cambiamenti.
Morelli tratta il lavoro con rispetto e amore, definendolo un dato originario interno che concorre a definire il significato dell’esistenza umana rendendolo il principale fattore che definisce il significato dell’esistenza umana e forgia l’identità delle persone.
Charles Chaplin lo aveva perfettamente capito. Tempi Moderni è certamente la biografia dell’alienazione umana nella catena di montaggio e dell’uomo reso schiavo da tecnologie utilizzate e progettate senza cuore né cervello, senza appunto sentimenti, per massimizzare i profitti, a scapito delle relazioni umane che, invece, dentro le mura aziendali sono il vero valore aggiunto che, però, non trovano quasi mai riconoscimento e rappresentanza. Ma non solo. Chaplin, con una straordinaria capacità di analisi e anticipazione, ci ha mostrato la più grande questione che oggi ritorna nel lavoro e, quindi, nella società: la solitudine. La sua comicità antropologica ci mostrava lavoratori talmente soli e sequestrati dalla produzione da non avere nemmeno il tempo di litigare con il compagno di lavoro.
Il lavoro è la possibilità per ognuno di sentirsi importante perché consente a tutti, in una dimensione collettiva, di dare il proprio contributo a un destino comune. Diversamente il lavoro si riduce a un ingranaggio di un sistema veloce, superficiale, mercificato che si dimentica degli ultimi e riduce le persone a essere valutate e accettate in funzione soltanto del loro essere, o meno, utili, funzionali e adeguati a questo sistema. Chi non ha soldi non può partecipare e, quindi, questo modello economico e sociale lo emargina. Un fatto inaccettabile per chi, come noi, vuole contribuire a ricucire la società, le relazioni, la comunità e l’identità collettiva.
Il lavoro è quindi il punto di partenza. Sul lavoro, sulla sua divisione, l’uomo ha costruito, e fatto evolvere, le società. È quindi il luogo dove si formano le coscienze collettive: lì, si condividono gioie, preoccupazioni, desideri, lacrime, sacrifici, sudore, fatica, passione e desiderio per il ben fatto. In pratica, la solidarietà. Non credo ci sia altro luogo così totalizzante nella produzione di sentimenti, relazioni e coscienza collettiva. Una volta sicuramente funzionava così, proprio perché le persone si sentivano parte di un destino comune e collettivo, responsabili della felicità e della realizzazione dell’altro. E questo aveva ripercussioni positive anche nella società, producendo conquiste e avanzamenti fondamentali. Come ci fa vedere Chaplin, una volta ci si alienava nel lavoro, nel modo di produrre, nei tempi, nella noia, nella ripetitività. E allora si cercava riscatto nella libertà di pensare e interrogarsi, di farlo insieme agli altri, per tutti. L’ingiustizia era vissuta come una lacerazione della comunità e, perciò, necessitava di una risposta corale. Oggi è individuale e spesso invisibile e indifferente.
La prima preoccupazione è quella di salvare se stessi, di avere la proroga del contratto, di avere qualche ora in più di lavoro per avere uno stipendio sufficiente. Ci si preoccupa solo di sé, penso anche che sia normale, soprattutto in un periodo di preoccupazioni che mette tutti sulla difensiva. Ma questo asciuga solidarietà e desiderio di condivisione, e fa avanzare la paura che costruisce muri e barriere. La sicurezza del lavoro e la sicurezza al lavoro aprono all’altro. Occorre rimuovere le cause che generano questa incertezza, non riproponendo vecchi schemi, ma costruendo certezze utili all’altezza dei tempi. Come si fa a immaginare un altro mondo se sono preoccupato di salvaguardare il mio orticello per mangiare? Come faccio a pensare a uno spazio per gli altri se non so nemmeno io che spazio potrò occupare? In un mondo del lavoro così frammentato e “impaurito” non c’è spazio per il collettivo, per la comunità, quella comunità che accoglie tutti. E se torniamo al fatto che il lavoro plasma l’identità delle persone, che tipo di persone può formare un mondo del lavoro fatto così? I condomini spesso sono un esempio di questo sfascio. Recentemente abbiamo letto la storia di un anziano che ha chiamato la Polizia non avendo nulla da mangiare. Un dramma. Certamente una bella vittoria della polizia che ha portato spesa e compagnia a una persona sola, ma una sconfitta per la solidarietà del vicinato, sordo e cieco ai bisogni dei dirimpettai. Quello stesso vicinato che una volta, prendendosi cura dei bambini degli altri, favorì l’emancipazione delle donne che, contando su questa solidarietà e questo welfare di prossimità, riuscirono ad andare a lavorare.
Per trovare le soluzioni serve immaginare e pensare che tipo di società, di comunità e di relazioni vogliamo. Solo se abbiamo chiara la meta possiamo giudicare positivi o negativi gli interventi del governo nella misura in cui aiutano od ostacolano il raggiungimento di quella meta collettiva… e ancora, si possono produrre e proporre interventi positivi e virtuosi perché si è capaci di tenere insieme analisi delle contingenze e cambiamenti. Solo lì c’è lo spazio per il nuovo che sappia riproporre sicurezza e scacciare le paure che dividono, sempre, le persone. Questa è la capacità che ha fatto grande il sindacato e che ha prodotto le migliori innovazioni e conquiste, cambiando in meglio la vita delle persone e curando germogli di cambiamento e passione.
Il lavoro e la rappresentanza, radicata nell’etica e nel futuro, sono la cura quotidiana delle relazioni, la capacità di costruire e di occuparsi di comunità, dove far rifiorire le relazioni. Solo così saremo capaci di prosciugare la paura del futuro che divide le persone e che toglie ossigeno al bisogno di sindacato che, invece, potrà tornare a respirare solo se saremo capaci di aggregare le persone attorno a un’idea migliore di paese, a un’idea diversa di stare insieme, al bisogno di accompagnare tutti. La tensione etica e morale diventa quindi fondamentale. Riconoscere le ingiustizie e indignarsi non basta se all’indignazione non seguiranno azioni concrete in grado di risolvere le contraddizioni e rimuovere le cause che generano i fatti per cui ci indigniamo. E’ la differenza tra chi si accontenta della testimonianza e chi, invece, non si rassegna e vuole promuovere cambiamento.
Charles Chaplin diceva di aver sempre combattuto un mondo di moralità senza morale, un mondo dove tutto continua a progredire ma nessuno progredisce veramente. Ecco, il progresso deve essere per prima cosa progresso umano, crescita individuale e soprattutto collettiva. Abbiamo sempre detto “la persona al centro”. Uno slogan bello e importante ma che necessita, oggi, di un salto di qualità, bello e decisivo, che sappia mettere al centro le relazioni e la comunità. Perché sono sempre le relazioni e la comunità a fare la differenza. Se tutto diventa finalizzato a un consumo immediato, veloce, che prevede solo il qui e ora, ogni tensione etica soffoca e ogni immaginazione di domani e futuro tramonta; se tutto tende alla soddisfazione di un bisogno individuale, l’altro non è previsto: ecco, in una società come questa non c’è spazio per la solidarietà e per il Sindacato. Non c’è spazio per gli ultimi. Investire sugli ultimi, invece, oltre a essere una scelta di campo valoriale è anche una scelta che ha implicazioni economiche positive, e allarga orizzonti di crescita inediti e inclusivi. A questa velocità dobbiamo opporre la forza della riflessione collettiva, per preparaci a rivoluzionare il domani insieme a tutti coloro che hanno a cuore il ben-essere degli altri.