Le sfide poste dai giovani sono da sempre quelle più interessanti per orientare le scelte di chi ha a cuore una cosa che chiamiamo solitamente con il nome di “cambiamento”. Dalla riscoperta del mistero della eguale ricerca di una propria vocazione esistenziale, uguale per ciascuno, ne discende una prima forma di ritorno ad un’uguaglianza sostanziale nelle società in cui la distribuzione degli averi è più disuguale delle società precedenti e dove i consumi hanno preso il posto dei desideri
Da un lato il lavoro come destino, condanna, ideologia, sacralità e merce da vendere e da comprare; dall’altro il lavoro come azione relazionale umana generatrice di senso e significato individuale e collettivo. Parto da questa schematizzazione proposta da Ugo Morelli per una riflessione sul “posto” che il lavoro occupa nell’organizzazione sociale post-moderna. La dicotomia antica tra lavoro come condanna e lavoro come vocazione e quella più moderna proposta dalla Hardendt tra il lavoro inteso come mestiere atto a soddisfare esigenze quotidiane della vita (Job) e lavoro inteso come maestria, come capacità dell’uomo di compiere capolavori (work), oggi si fanno entrambe più complesse, non bastano più a ridiscutere la direzione di “senso” del lavoro in una società liquida in cui i legami relazionali, compresi quelli familiari, prendono la forma dei consumi.
Che senso può avere il lavoro in una società che perde una direzione di senso? Che auto-narrazione può avere la storia di una comunità in fabbrica nell’epoca in cui sembrano essere cadute tutte le grandi narrazioni sotto il peso della cronaca e delle notizie consumate e diffuse just in time?
Uno dei primi antropologi a far rilevare questa grande “assenza” della società post-moderna ( il senso, la direzione) è stato M.Augè nella sua intuizione sulla fabbrica occidentale dei “non-luoghi”, quei posti sempre più presenti nel mondo iper-consumistico che caratterizzati dall’esclusività delle prestazioni commerciali, funzionali e burocratiche sulle relazioni umane. Posti che occupano grandi spazi del nostro immaginario vitale e che impegnano tempi lunghi delle nostre esistenze (centri commerciali, stazioni, aeroporti, autostrade, uffici vari) in cui nessuna relazione identitaria può costituirsi tra i passeggeri dello stesso non-luogo, sia che essi siano avventori o commessi o manager o funzionari. La ricaduta più immediata è stata registrata da filosofi e psicoterapeuti come Galimberti ed ha riguardato i giovani e l’avanzare del nichilismo, che da passivo è divenuto attivo. La perdita di senso prolungata non può stagnare e a lungo, come tutti i fenomeni sociali non può restare “ferma” a lungo, e quando non si evolve in qualcosa di diverso e di costruttivo, il nichilismo prende le sembianze di nuove forme sociali e diventa di per se stesso sostanza, movimento, cambiamento.
Come si può altrimenti parlare del grande allarme dei Neet ( dei giovani under 35 che hanno rinunciato a studiare ed a cercare lavoro) , 2 milioni e 400 mila solo in Italia, una delle cifre più alte di Europa, se non come di un nuovo movimento emergente e sempre più consiste di “non lavoratori”, di persone che non avvertono la dimensione del lavoro né come condanna né come vocazione, semplicemente come una dimensione esistenziale da cui (nichilismo passivo) sentono di non poter appartenere oppure a cui decidono consapevolmente di non voler appartenere (nichilismo attivo). In entrambi i casi questa scelta sembra ricollegarsi all’inconsistenza della dimensione esistenziale del lavoro: si lavora per vivere, ma se riesci a vivere anche senza lavorare, perché no?
Le sfide poste dai giovani sono da sempre quelle più interessanti per orientare le scelte di chi ha a cuore una cosa che chiamiamo solitamente con il nome di “cambiamento”.
Per attraversare quella faglia che ha separato gli uomini e le donne dai lavoratori e dalle lavoratrici, ci tocca probabilmente lavorare su due fronti contemporaneamente: essere dentro ed essere fuori il lavoro, essere dove il lavoro si produce e dove il lavoro produce
Alla luce della stupenda disamina di Morelli sulla necessità di spingere l’acceleratore sul “lavoro come azione relazionale” per uscire dall’angolo in cui è stato distrattamente messo nella confusione tra sacralità/destino (condanna) e mercificazione (scambio), viene da pensare che ci toccherà “uscire” dal lavoro e stare di più nella società in cui il lavoro si produce, con i suoi correlati di senso e nonsenso.
Nuovi lavori come “l’influencer”, lo “Youtuber”, il “tagliatore di teste”, il “telefonista del call center”, Il “dog sitter”, “il recupero crediti”, “il giocatore d’azzardo professionista” che occupano non solo un enorme spazio nelle praterie immaginifiche dei giovani ma anche di pezzi consistenti del nostro Pil, come si inseriscono in quella dicotomia? Probabilmente sfuggono ad entrambe le posizioni, né destino né vocazione, solo iattura o fortuna. Ma non vale solo per i giovani. Richard Sennet scrive che “la storia ha stabilito una serie di linee di faglia che dividono la pratica dalla teoria, la tecnica dall’espressività, l’artigiano dall’artista, il produttore dal fruitore; la società moderna è afflitta da questa eredità storica. Ma la storia delle arti e mestieri e la vita degli artigiani del passato additano modi di usare gli attrezzi, di organizzare i movimenti corporei, di pensare i materiali che costituiscono ancora oggi valide proposte alternative su come condurre la vita con maestria” ( L’Uomo Artigiano, 2008). Per attraversare quella faglia che ha separato gli uomini e le donne dai lavoratori e dalle lavoratrici, ci tocca probabilmente lavorare su due fronti contemporaneamente: essere dentro ed essere fuori il lavoro, essere dove il lavoro si produce e dove il lavoro produce.
Come ha spiegato ampiamente Morin è il momento di uscire dai paradigmi binari e duali per entrare in quelli olistici, uscire dalla conoscenza ed entrare nel mistero, in quel “luogo spirituale” in cui il senso della vita si produce e si attribuisce. E’ stato proprio il laicismo di Morin a definire i grandi scioperi ed i conflitti aperti dai jilet jaunes come una enorme manifestazione di una “crisi di fede” http://www.vita.it/it/article/2018/12/05/edgar-morin-i-gilet-gialli-sono-il-sintomo-di-una-crisi-di-fede/150014/
Il lavoro può tornare ad essere dimensione di senso solo se esiste una società che intende averne uno, a cominciare dalle sue scuole, che in un futuro, molto prossimo, saranno chiamate ad uscire dall’essere non-luoghi per l’erogazione di prestazioni burocratiche di distribuzione del sapere ed entrare e far entrare gli studenti nella dimensione dell’ignoranza e del mistero , in un luogo comunitario in cui il senso della comunità si produce proprio da quei legami avvolti dal mistero di un destino comune (Morin, Conoscenza, Ignoranza, Mistero, 2019).
Dalla riscoperta del mistero della eguale ricerca di una propria vocazione esistenziale, uguale per ciascuno, ne discende una prima forma di ritorno ad un’uguaglianza sostanziale nelle società in cui la distribuzione degli averi sono più disuguali delle società Precedenti e dove i consumi hanno preso il posto dei desideri.
Dalla riscoperta del mistero della eguale ricerca di una propria vocazione esistenziale, uguale per ciascuno, ne discende una prima forma di ritorno ad un’uguaglianza sostanziale nelle società in cui la distribuzione degli averi è più disuguale delle società precedenti e dove i consumi hanno preso il posto dei desideri.