In una visione miope, la deforestazione dell’Amazzonia è un problema non mio, casomai lo sarà per i miei figli e nipoti. In realtà il futuro è già presente, anche se non ce ne rendiamo conto
Nessuna persona sana di mente vi proporrebbe mai un lavoro o una fatica insostenibile. Sarebbe una contraddizione evidente, visto che secondo il dizionario Treccani l’aggettivo indica un impegno «che non si può affrontare, sopportare». Eppure, quando parliamo di sviluppo sostenibile, molti storcono il naso. La ragione è spiegabile con due evidenze. Mentre si percepisce immediatamente l’impossibilità, ad esempio, di sollevare un masso di 500 chilogrammi, un modello economico che brucia troppe risorse naturali a prima vista può sembrare non solo tollerabile, ma perfino attraente. Il secondo motivo è più sottile e chiama in causa l’istinto egoistico dell’essere umano: secondo la definizione della Conferenza Onu sull’ambiente del 1972, infatti, è sostenibile il sistema che consente a una generazione di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri. Insomma, in una visione miope, la deforestazione dell’Amazzonia è un problema non mio, casomai lo sarà per i miei figli e nipoti. In realtà il futuro è già presente, anche se non ce ne rendiamo conto. Per averne una conferma (l’ennesima) basta riflettere sul risultato dello studio scientifico condotto da un’équipe dell’Università di Bologna al fine di capire se vi sia stato un nesso tra lo smog e la diffusione della pandemia di Covid-19. La curiosità del professor Marco Roccetti (che ha svolto l’indagine con la collaborazione di Giovanni Delnevo e Silvia Mirri) è nata dalla semplice constatazione di come il coronavirus abbia colpito più duramente la Pianura padana rispetto ad altre zone del territorio italiano. In parecchi hanno attribuito il fatto alla vitalità economica dell’area e ai maggiori spostamenti internazionali degli abitanti, ma qualcuno ha iniziato a puntare il dito contro la bassa qualità dell’aria, notoriamente causa di patologie respiratorie. Per uscire dall’ambito dell’opinabile, il gruppo di Unibo ha deciso di analizzare il numero di infezioni giornaliere in Emilia-Romagna e il livello di Pm10, Pm2,5 e biossido di azoto, raccogliendo i dati anche durante il periodo di lockdown. Utilizzando un metodo statistico preso dalle scienze econometriche, è stata quindi dimostrata l’esistenza di un rapporto tra la malattia e l’inquinamento. Anzi, la «correlazione spaventosa», per dirla con il professor Marco Roccetti.
Occorrerà dunque procedere per piccoli passi, senza perdere di vista la meta finale e senza mai accontentarsi dei risultati raggiunti, bensì attuando una serie di mediazioni al rialzo
Purtroppo simili indagini hanno un’eco limitata, ma forse non è questo il nodo se ancor oggi i social network sono ricchi (si fa per dire) di voci che negano addirittura l’esistenza del virus e rilanciano teorie complottiste. Se vogliamo «far sul serio», allora, se vogliamo davvero lavorare per accreditare un nuovo modello di sviluppo, proprio da qui dobbiamo partire, ossia da un’azione culturale che ridia il giusto valore al metodo scientifico e contrasti la logica delle echo-chambers (ossia degli spazi in cui si propagano solo voci consonanti mentre ogni vero contraddittorio è bandito).
Il secondo passaggio è riabilitare il compromesso, perché il cambiamento non potrà essere immediato. Occorrerà dunque procedere per piccoli passi, senza perdere di vista la meta finale e senza mai accontentarsi dei risultati raggiunti, bensì attuando una serie di mediazioni al rialzo. Su tale terreno sono necessari uno sforzo incessante e un’attenzione costante per evitare che qualche pannicello caldo lavi le coscienze anziché favorire una svolta sempre più decisa.
Infine bisogna fare in modo che le scelte siano consapevoli e condivise. Incentivare è dunque meglio che vietare, proprio perché porta il soggetto a decidere liberamente. Ecco la ragione per cui, magari per deformazione professionale, reputo fondamentale la comunicazione.
A salvare il pianeta, non sarà certo chi compulsa ossessivamente i sondaggi per difendere il proprio spicchio di potere
Per spiegarmi cito un caso decisamente noto, ossia quello della teoria della «decrescita». È un termine che ho sempre contestato in quanto indica solamente una riduzione, un passo indietro invece di un nuovo orizzonte avanzato in cui le privazioni sono ampiamente bilanciate da nuovi vantaggi. È un termine che può affascinare una minoranza, farla sentire forte e lungimirante, ma che tuttavia difficilmente indurrà la maggioranza a modificare uno stile di vita ritenuto tutto sommato gradevole. La rinuncia a spostarsi in auto per un ideale temo sia nobilmente elitaria, mentre scoprendo che si risparmia e si guadagna tempo tutto diventa più facile (lo testimonia il successo dei treni ad alta velocità).
Immagino una giusta obiezione: queste strategie sono inadeguate posto che il tempo stringe, servono cioè azioni rapide, mentre i cambiamenti culturali generalmente sono lenti. A prescindere che talvolta la mentalità collettiva può anche rinnovarsi con una certa celerità, ritengo che il deficit di classe dirigente (fenomeno mondiale, non solo italiano) imponga una spinta dal basso, possibile però solo se si modificherà l’orientamento di massa. Perché, a salvare il pianeta, non sarà certo chi compulsa ossessivamente i sondaggi per difendere il proprio spicchio di potere.