Nelle scelte pubbliche della si promette il contenuto radicale ed innovativo lasciandolo in eleganti confezioni ben chiuse, che gli scettici sospettano siano proprio vuote
L’esplosione della pandemia nel paese ha evidenziato, da subito, allarmanti deficienze nel funzionamento delle istituzioni. A cominciare dal riconoscimento della portata del fenomeno e dalla relativa comunicazione, proseguendo con le scelte attinenti al contrasto e contenimento dell’epidemia, e, attualmente, con la definizione ed attuazione di una strategia della cosiddetta ripartenza, a breve, medio e lungo termine. Al cittadino è parso che non abbiano dato buona prova né lo Stato, né le Regioni né gli Enti locali; e che non abbiano dato buona prova né i consessi di rappresentanza democratica, né gli organi esecutivi, né, soprattutto, i relativi apparati amministrativi e tecnici.
Al riguardo, i politici, seppure con analisi fortemente divergenti e nel rimpallo delle responsabilità, sembrano unanimi nel riconoscere l’urgenza di una riforma della macchina amministrativa del paese. Con ricette più o meno vaghe, di cui si promette il contenuto radicale ed innovativo lasciandolo in eleganti confezioni ben chiuse, che gli scettici sospettano siano proprio vuote.
Il proposito, in verità, non è particolarmente nuovo. Portavo i pantaloni corti e già sentivo dire che la macchina dello stato funzionava male. Tant’è che per qualche tempo ho continuato a pensare che a funzionar male fosse l’Aurelia B20, blu scuro, da cui emergeva, tra gli applausi, l’Onorevole, quando veniva a tenere un comizio in paese. Mio padre, lo avevo sentito più volte, diceva che era una macchina di stato. A me quell’automobile sembrava bellissima e mi spiaceva sentir dire che funzionava male. Quando mi si chiarì l’equivoco ne fui contento.
Nei sessanta anni successivi non abbiamo mai smesso di sentir parlare della necessità, sempre urgente ed improcrastinabile, di riformare la pubblica amministrazione. La litania delle parole magiche ha accompagnato come una colonna sonora ogni dibattito sulla vita civile del paese: snellimento, sburocratizzazione, semplificazione, efficienza, competenza, responsabilità, merito. Ogni volta, al cospetto del nuovo, dal boom economico all’economia postindustriale, dalla globalizzazione alla crisi ambientale, dalle montagne che si sfarinano sotto la pioggia ai ponti che crollano, parte il rosario. Negli ultimi anni al rosario si è aggiunto qualche grano particolarmente suggestivo: informatizzazione, digitalizzazione, smart working, intelligenza artificiale. Direbbe lo scettico: e se provassimo ad utilizzare un po’ meglio la vecchia cara intelligenza naturale?
Ogni volta, al cospetto del nuovo, dal boom economico all’economia postindustriale, dalla globalizzazione alla crisi ambientale, dalle montagne che si sfarinano sotto la pioggia ai ponti che crollano, parte il rosario
Tante parole, pochi concetti e, soprattutto, pochi fatti. Difficile scorgere sostanziali differenze tra il funzionamento dell’amministrazione pubblica dell’immediato dopoguerra e quella dei nostri giorni. Non ci è più stato richiesto, a corredo di questa o quella pratica, il certificato di esistenza in vita: qualcuno aveva realizzato che, secondo logica elementare, si trattava di un certificato a scadenza istantanea. E quando gli uffici pubblici si sono accorti di avere difficoltà a rilasciare al cittadino tutti i certificati che gli stessi uffici pretendevano, dallo stesso cittadino, per permettergli di lavorare e intraprendere, è arrivato il colpo di fantasia: l’autodichiarazione. Poche altre novità. La più propagandata, in nome dell’efficienza: il trasferimento delle attività gestionali, soprattutto nelle amministrazioni locali, dai politici ai dirigenti (incaricati, però, ad libitum, dai politici). Si può dubitare che sia migliorata l’efficienza e viene il sospetto che il vero risultato sia stato il trasferimento delle responsabilità (di appalti, concessioni, concorsi e via dicendo) dai mandanti agli esecutori materiali.
Quando gli uffici pubblici si sono accorti di avere difficoltà a rilasciare al cittadino tutti i certificati che gli stessi uffici pretendevano, dallo stesso cittadino, per permettergli di lavorare e intraprendere, è arrivato il colpo di fantasia: l’autodichiarazione
Nella sostanza il funzionamento della macchina amministrativa è rimasto uguale, mentre gli apparati crescevano e si moltiplicavano, secondo il dettato biblico, e, secondo la legge della natura, si arrugginivano e si sfaldavano. E intanto il mostruoso corpaccione veniva contagiato da un numero sterminato di virus appartenenti alla famiglia buro-, di cui esistono diversi ceppi, tutti aventi l’effetto patologico di indurre all’applicazione di uno schema mentale burocratico nell’analisi della realtà e nelle azioni conseguenti. Gli studiosi ne hanno individuati e sequenziati numerosi: il buro-EL (governo dell’economia e del lavoro), il buro-MIUR (formazione e ricerca), il buro-AMB (tutela dell’ambiente e del territorio), il buro-CULT (tutela dei beni culturali e paesaggio), il buro-LEG (legalità e contrasto alla criminalità), il buro-FISC (fiscalità), il buro-SIC (sicurezza sui luoghi di lavoro), buro-GIUST (organizzazione della giustizia), buro-ANAC (lotta alla corruzione) e così via. C’è chi sostiene che esista persino una sorta di super-virus: il buro-LEG (produzione delle leggi). Sono tutti virus e si comportano da virus: contagiano, infettano, si moltiplicano e si attrezzano per rispondere a terapie antivirali e vaccini.
Non c’è da stupirsi che una macchina così infettata abbia reagito così male all’epidemia. Dal ritardo nel lanciare l’allarme, sino al reperimento delle mascherine.
Tra le tante notizie che ci hanno turbato o sconsolato in questi tempi di lockdown, ce n’è una che mi ha colpito particolarmente. La fonte è attendibile. Il dirigente di un Ente pubblico, per giustificare il mancato rispetto di un termine procedimentale (posto a tutela del cittadino) ha sostenuto di essere in lavoro agile (a casa) e di non aver potuto adempiere a quanto dovuto nel termine prescritto perché le carte occorrenti si trovavano in ufficio. Il cittadino ha silenziosamente incassato il torto, nella convinzione, fondata sull’esperienza, dell’inutilità di un reclamo. Gli resta l’impressione che il lavoro agile, così burocraticamente praticato, dovrebbe chiamarsi, piuttosto, riposo impacciato.
L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare, come diceva Bartali. E per metterci all’opera bisognerebbe che il paese, ascoltando cosa intende un dirigente della pubblica amministrazione per lavoro agile, sia capace, prima ancora di indignarsi, di farsi una fragorosa risata.