Sono, questi, giorni intensi, in cui la percezione che nulla sarà più come prima è molto radicata al pari del timore di non trasformare questa crisi in un’occasione per modernizzare il paese recuperando ritardi strutturali ormai ammuffiti. Uno spreco che sarebbe anche una mancanza di rispetto per i troppi morti che ancora piangiamo. Per sbrogliare ciò che sembra oggi una matassa aggrovigliata bisogna partire dal lavoro, centro gravitazionale di tutto ciò che compone la nostra società e plasma le nostre vite, epicentro di trasformazioni e crocevia di relazioni e destini collettivi.
Il Sindacato, ogni giorno, si confronta con queste accelerazioni, cercando di ritrovare quella forza che sta nella capacità di accompagnare le persone verso orizzonti di sicurezza e maggiori opportunità, proprio come un padre prende per mano il proprio figlio rassicurandolo nelle incertezze. È questa la domanda di rappresentanza che siamo chiamati a custodire e per raccogliere questa sfida non esiste terreno migliore del lavoro, realizzazione pratica e traduzione umana del concetto di solidarietà, dal punto di vista comunitario, produttivo e contrattuale.
Condividere, con colleghi e compagni di lavoro, spazio e tempo significa anche condividere destini, preoccupazioni e gioie, prendendosi cura degli altri e della loro felicità. È ciò che abbiamo sperimentato con lo smart working che ha individuato nella “solitudine” uno dei punti deboli a cui occorre porre rimedio immaginando nuovi spazi di co-working.
Produrre vuol dire essere parte di un qualcosa di più grande. Il ben fatto diventa un esercizio di rispetto e responsabilità nei confronti del proprio e altrui lavoro, che mette il collega nelle condizioni di poter aggiungere il proprio valore. Significa, in definitiva, essere consapevoli che il prodotto che si contribuisce a realizzare possa girare il mondo, abbattendo barriere e pregiudizi, finendo nelle mani e nelle disponibilità di un’altra persona della quale nemmeno si conosce l’identità ma che potrà godere dell’intelligenza, della competenza e della fatica di altre persone. Il risultato, tanto forte quanto sottovalutato, è quello di finire tutti per vedersi uniti in questa catena globale di valore umano.
La contrattazione, poi, è la realizzazione di visioni condivise di un certo tipo di società. È consegnare a tutti la libertà, e la gioia, di poter contribuire, con la propria responsabilità, a migliorare le condizioni collettive, economiche, lavorative e sociali, all’interno delle quali ognuno possa trovare una risposta anche personale.
Ecco perché la solidarietà è un valore da custodire e da difendere sempre e ovunque. Abbracciare la solidarietà, che sia nei confronti di chi cerca un destino migliore, di un povero, di chi ha perso tutto o di chi cerca un riscatto, significa avanzare dal punto di vista lavorativo e comunitario. Vuol dire ristabilire l’importanza della relazione umana, unica strada per superare barriere e pregiudizi, aprendosi all’altro.
La partecipazione, infine, rappresenta una palestra educativa in grado di favorire anche l’impegno civico. Partecipare a concorrere nel migliorare le condizioni all’interno dei luoghi di lavoro con un approccio coopertivo favorisce l’innalzamento delle relazioni industriali, che emargina automaticamente i conservatori, quelli che frenano il cambiamento perché hanno perso la propria libertà che è la forza di interrogarsi, di dubitare e di pensare in continuazione. Un esercizio difficile ma necessario se vogliamo spalancare le porte delle fabbriche per fare in modo che quell’aria calda di condivisione e, appunto, solidarietà possa riscaldare tutta la società. Non è un caso che le più grandi conquiste sociali abbiano avuto un detonatore operaio capace di aggregare le persone attorno a obiettivi positivi e collettivi. È l’I Care di don Lorenzo Milani che ci sprona, ancora oggi, a interessarci dell’altro e a vederlo come un alleato per un avanzamento comune, destinatario di reciproche responsabilizzazioni.
Occorre rimettere in fila i valori che vogliamo attribuire al lavoro che deve essere lo strumento per vivere una vita dignitosa e principale fonte di formazione dell’identità individuale. Occuparsi del lavoro delle persone vuol dire, quindi, aver cura della loro crescita come cittadini. Solo così ognuno saprà assegnare, al lavoro, il valore di bene comune, elevandolo a patrimonio collettivo, da difendere e custodire, impegnandosi a far spazio agli altri, contrastando la logica perdente dell’esclusione. Ecco, quindi, che torna potente la forza della solidarietà, fondamentale e conveniente, che, partendo dal riconoscimento di comuni valori, consente a tutti di maturare la consapevolezza che rinunciando, oggi, a qualcosa di individuale potremo avere tutti, domani, un bene collettivo ben più grande, fatto di inclusione, opportunità e ben-essere.
Si chiama economia etica che è efficace nei territori regionali con partecipazione trasparente pubblico imprese importanti li presenti per crescere in innovazione e competitività, creare PIL regionale, aumentare lavoro e indotto, con ricadute immediate sui cittadini su temi ambientali e sociali, si città, modalità, scuola, persone svantaggiate, per poi esportare i prodotti fuori o attrarre investimenti o presenze (dal turismo, alla sanità). Il Paese in Europa con la globalizzazione lontano dai territori non può fare codesto lavoro. Si può ripartire solo così, non c’è altra via. Il lavoro da dignità, la dignità rende indipendenti e liberi, porta a un aumento dei consumi, allontana i giovani dall’ozio e dal guadagno facile, li rende cittadini lavoratori artefici del loro futuro, delle loro aziende, delle generazioni a venire, custodisce i beni del creato, aiuta i più deboli (anziani, non autosufficienti, disabili, ….).