di Francesca Gennai e Flaviano Zandonai
Molte organizzazioni di terzo settore operano in ambiti ritenuti promettenti per la creazione di nuova occupazione come la care economy o i mestieri creativi legati alla produzione culturale
Il terzo settore è sempre più considerato un “bacino occupazionale” significativo sia per quanto fin qui realizzato (quasi un milione di occupati secondo le statistiche Istat rilevate in realtà sul più vasto campo nonprofit) sia per il potenziale di sviluppo ulteriore legato al fatto che molte organizzazioni di terzo settore operano in ambiti ritenuti promettenti per la creazione di nuova occupazione come la care economy o i mestieri creativi legati alla produzione culturale.
Collocare però la dimensione del lavoro nel terzo settore non è immediato e richiede alcuni elementi di attenzione onde evitare fraintendimenti, soprattutto in sede di regolazione contrattuale e di accompagnamento alle organizzazioni per rafforzare questa dimensione. Nel terzo settore, ad esempio, il lavoro retribuito è fortemente polarizzato su una minoranza di soggetti labor intensive che corrisponde alla sua componente imprenditoriale (impresa sociale). Il lavoro nel terzo settore però non è solo salariato, anzi. La maggior parte della sua forza lavoro è volontaria e quindi dona a titolo gratuito tempo, competenze e soprattutto motivazioni legate al fatto di operare in strutture, settori e in senso lato politiche mission-oriented. La struttura motivazionale assume comunque una rilevanza particolare anche per i lavoratori salariati. Si basa infatti su un mix ricco di ambivalenze caratterizzato, da una parte, da basse qualifiche e stipendi ma dall’altra da elementi di soddisfazione derivanti dall’agire all’interno di network densi in senso relazionale, oltre a far parte di organizzazioni che distribuiscono le risorse generate in modo più trasparente ed equo rispetto ad altri modelli (sia privati che pubblici). Infine va ricordato che per alcuni soggetti del terzo settore la creazione di lavoro costituisce il principale risultato della loro attività in particolare per favorire l’inclusione di fasce deboli della popolazione. Il lavoro, da questo punto di vista, assume una connotazione pedagogica che, di nuovo, può essere estesa non solo ai beneficiari svantaggiati ma all’intero comparto denotando così un’ulteriore qualità e peculiarità. Per contestualizzare ulteriormente il lavoro nel terzo settore è possibile individuare alcune macro tendenze evolutive di medio periodo. Due in particolare sembrano essere i principali vettori di trasformazione che seguono però traiettorie diverse, non semplici da conciliare in una strategia unitaria. Il primo driver riguarda la tendenza alla frammentazione dei beni di “utilità sociale” (cura, educazione, inclusione, ecc.) in prestazioni specialistiche per effetto di modalità organizzative e gestionali ispirate a modelli di acquisto della Pubblica Amministrazione (gare d’appalto, sistemi di accreditamento, ecc.) ma a tendere anche di aggregatori privati. Un’evoluzione ormai diffusa che però sembra arrivata a “un punto di non ritorno”, perché impoverisce i caratteri peculiari del terzo settore e presta il fianco a comportamenti opportunistici che colpiscono soprattutto la componente lavoro.
Il lavoro assume una connotazione pedagogica che può essere estesa non solo ai beneficiari svantaggiati ma all’intero comparto denotando così un’ulteriore qualità e peculiarità
La seconda tendenza, quasi una reazione alla prima, consiste nel recupero della dimensione di radicamento territoriale e comunitario generando mutamenti significativi su alcuni profili professionali e di competenza. Alla figura quasi operaistica dell’operatore sociale erogatore di prestazioni specialistiche si sostituisce quella di un “social worker hero” che opera all’interno di reti locali, abilitando il protagonismo dei soggetti locali. Costruttori e manager di comunità che spesso agiscono “sotto copertura” gestendo spazi di aggregazione sociale e relative attività commerciali difficilmente inquadrabili all’interno di mansionari codificati e livelli contrattuali.
La pandemia, soprattutto nella sua impronta sul futuro prossimo, contribuirà probabilmente a esasperare, nel bene e nel male, queste tendenze: sia il “delivery” di prestazioni che la riscoperta del valore derivante dalla capacità di fare animazione sociale. Ma questo stesso scenario ha svelato anche ulteriori divari strutturali che fanno pensare alla necessità non tanto di un contratto lavorativo unitario, ma prima ancora di una politica del lavoro dedicata al terzo settore. In primo luogo la disparità di trattamento tra lavoratori che svolgono le stesse attività ma operando in organizzazioni pubbliche piuttosto che del privato sociale. O ancora le differenze tra questi ultimi e il pulviscolo di fornitori privati che operano tra mercato nero e legale e sempre più intermediati da piattaforme digitali di gig economy. In secondo luogo. si nota un trend di invecchiamento precoce dei lavoratori del terzo settore che si può far risalire anche allo scarso appeal di questi soggetti verso le nuove generazioni. La causa di solito viene individuata nei bassi salari, ma probabilmente esistono anche altri fattori, ad esempio il fatto che il terzo settore non ha ancora trovato una propria identità e cultura digitale andando quindi alla ricerca di profili professionali adeguati; oppure il fatto che offre scarse occasioni di mobilità in tutti i sensi: geografica, tra settori e anche di carriera. Due limiti rilevanti che rischiano di far perdere al terzo settore una generazione che secondo molte indagini è comunque molto attratta da motivazioni legate al “fare la differenza” anche in termini di impatto sociale.