Vi è una differenza sostanziale tra l’idea di libertà intesa come modo individualistico e egocentrico di vivere il rapporto con gli altri e l’idea secondo cui la libertà di ciascuno trova il suo limite nella libertà dell’altro
Quell’evento inatteso che è stato ed è il coronavirus, tra le tante cose, ce ne ha ricordato almeno due che meritano qui di essere ricordate:
a) vi è una differenza sostanziale tra l’idea di libertà intesa come modo individualistico e egocentrico di vivere il rapporto con gli altri e l’idea secondo cui la libertà di ciascuno trova il suo limite nella libertà dell’altro;
b) solo il prevalere del senso della cooperazione su quella della cosiddetta competition ha potuto limitare i danni e darci qualche prospettiva di fuoriuscita dal tunnel del contagio e della morte.
L’individualismo e la competition hanno fatto la felicità di chi si è arricchito e si sta arricchendo su chi sta pagando e pagherà con la vita, con la disoccupazione, con la povertà.
Lo stato di disagio e di confusione in cui ci troviamo nel bel mezzo dello sfaldamento dei legami sociali in rapporto a istituzioni come la scuola e la sanità è piuttosto evidente. Il modello aziendalistico abbracciato ormai da tutti sta creando solo danni. L’ossessione per i risultati di ogni azienda-scuola o di ogni azienda-sanità in un clima deplorevolmente concorrenziale spinto verso il basso, ha fatto spostate l’attenzione degli operatori e delle famiglie dal valore effettivo della formazione e della cura all’ansia egoistica (l’egoismo non è solo individuale, può essere anche collettivo) di una gara insensata tra scuole e tra aziende ospedaliere che spinge sempre di più verso le diseguaglianze e il quasi totale disinteresse nei confronti delle persone, siano esse gli insegnanti con il loro ruolo, gli alunni e con la loro identità, gli operatori sanitari con la loro disponibilità umana, i pazienti con le loro insicurezze. Nelle scuole si è spezzato il legame tra genitori e insegnanti, negli ospedali il lato umano nella sofferenza scompare di fronte ai protocolli. Il diritto si sostituisce alla fiducia ed è diventato il distorto baluardo per individui che annaspano nella solitudine.
Solo il prevalere del senso della cooperazione su quella della cosiddetta competition ha potuto limitare i danni e darci qualche prospettiva di fuoriuscita dal tunnel del contagio e della morte
Oggi l’aziendalismo è un vero delirio ideologico. I lavoratori, si dice, sono imprenditori di se stessi, così costano meno alle aziende e possono essere meglio sfruttati; le scuole e le università e gli ospedali invece di pensare alle loro rispettive missioni, affogano penosamente nell’ansia generalizzata della competition, versione metropolitana e neoliberista della giungla. Il bene comune è preda dei privati e l’ambiente è in pericolo. Inoltre, siamo connessi e isolati. Le comunità virtuali che ci legano al mondo in modo attraentemente vertiginoso crescono però a scapito dei legami sociali e delle comunità reali e territoriali. Siamo tutti qui e altrove simultaneamente, ma non troviamo più il tempo per stare con noi stessi e con gli altri. Ce ne stiamo forse accorgendo forse soltanto ora nel silenzio forzato del mondo che è stato fermo. La connessione globale convive con la solitudine e la depressione.
Come ha esclamato Mark Fisher: Benvenuti nel realismo capitalista!
Ne Il capitale di Marx si legge: “Nella cooperazione pianificata con altri l’operaio si spoglia dei suoi limiti individuali e sviluppa la facoltà della specie”. Eppure nel modo capitalistico di produzione questa stessa facoltà cooperativa, è diventata il luogo sistematico dello sfruttamento.
Quella che Marx ha definito la facoltà della specie umana, la cooperazione, dove si sviluppa il carattere sociale degli individui, è nello stesso tempo la forma fondamentale del modo di produzione capitalistico entro cui si realizza lo svuotamento delle facoltà individuali e lo sfruttamento della forza-lavoro. Noi viviamo in questa contraddizione tra le capacità umane sociali e cooperative e il loro dominio e sfruttamento.
Proprio il potere che contiene in sé la cooperazione, quello per cui gli uomini sviluppano la loro umanità, è anche quello che può trasformarsi in una maledizione. L’ambivalenza della cooperazione può essere facilmente constatata in tre dei momenti dell’attività umana: la musica, la guerra, il lavoro. Un’orchestra, un esercito, una maestranza esprimono tre modi della cooperazione umana. Nell’orchestra lo stare insieme in modo organizzato, cioè attraverso una disposizione e una divisione delle competenze, è finalizzato a dare unità musicale a una composizione artistica, nell’esercito un modo organizzativo tutto sommato analogo è finalizzato alla forza e alla violenza più o meno legittima, nella fabbrica è finalizzato alla produzione delle merci. Si tratta di forme di cooperazione pianificata, in quanto alla capacità individuale degli uomini di stare insieme si aggiunge un’organizzazione pianificata di questo stare insieme. Chi decide dell’organizzazione e della pianificazione detiene il potere.
Noi viviamo in questa contraddizione tra le capacità umane sociali e cooperative e il loro dominio e sfruttamento
Come aveva già osservato Rifkin, si sta creando una divaricazione sempre più grande tra “un’élite cosmopolita di «analisti di simboli» che controllano le tecnologie e le forze di produzione; e un crescente numero di lavoratori permanentemente in eccesso, con poche speranze e ancor meno prospettive di trovare un’occupazione significativa nella nuova economia globale ad alta tecnologia”. Il nostro sistema sociale sembra esigere un prezzo, quello di una disarmata e dunque pericolosa permeabilità alle esigenze di un mercato dove, mentre le cose si sostituiscono agli uomini, gli uomini diventano cose.
Quando negli anni ’80 si cominciò a parlare di globalizzazione, si diffuse e divenne dominante una determinata visione del mondo. In essa c’era posto per l’abbassamento dei salari, per il ritorno verso forme occulte di schiavitù, per la ridislocazione in vari angoli del pianeta della produzione, per guerre fatte in nome dell’umanità, per l’idolatria e l’onnipotenza dei cosiddetti manager, per le speculazioni bancarie, per un indebolimento dei valori morali in nome dell’efficienza e del realismo, per la selvaggia occupazione privata di tutto ciò che era pubblico, per la fine della responsabilità sociale. Ci fu posto anche per il precariato che da spiacevole fase transitoria dell’esistenza divenne in silenzio condizione permanente. Una destra aggressiva impose di fatto l’idea di precarietà come condizione permanente del lavoro e una sinistra ormai esangue che si vergognava di sé stessa e andava in cerca di servili riconoscimenti imprenditoriali e manageriali di fatto la accettò chiamandola flessibilità. Che cos’è la flessibilità? In teoria un’ottima cosa: poter cambiare lavoro senza sentirsi prigioniero della ripetitività quotidiana dei gesti e dei comportamenti; essere svincolati dal lavoro fisso che condiziona tutta una vita; ottenere piena libertà nelle scelte. Un mondo meraviglioso! Del resto, il padre dell’economia politica Adam Smith aveva rilevato nel XVIII secolo che la ripetitività del lavoro di fabbrica uccideva l’intelligenza dei lavoratori. In pratica il racconto della flessibilità ricorda invece la storia di Pinocchio, di Lucignolo e del Paese dei Balocchi. Il famoso burattino credeva di andare a divertirsi con l’amico e si trasformò in asinello. Il lato asinino della flessibilità è la precarietà: dover cambiare lavoro in base alle fluttuazioni del mercato; essere condizionati per tutta la vita dalla mancanza di impiego fisso; non avere alcuna libertà nelle scelte. La precarietà non soltanto dà insicurezza rispetto al lavoro e al futuro, ma alla lunga tende a piegare il senso di orgoglio e di dignità delle persone, poiché esse sono sempre ricattabili fino al punto che la loro volontà si disperde e la loro autonomia si dissolve.
In pratica il racconto della flessibilità ricorda invece la storia di Pinocchio, di Lucignolo e del Paese dei Balocchi
Il vero problema è il fatto che la precarietà da condizione transitoria dell’esistenza è diventata, come già detto, condizione permanente in un mondo dove ogni speranza per il futuro, ma anche ogni rabbia per un presente che sta offendendo la dignità e l’orgoglio, non riescono a trovare né spazi né valori collettivi. Ogni senso critico resta privato e si dissolve nell’autoinganno indotto dall’oscillare mediatico tra la falsa euforia prodotta dalla pubblicità di un mondo che non c’è, e lo spettacolo di corruzione, di immoralità e di egoismo a cui assistiamo tutti i giorni, ma che vediamo alla tv come dal buco della serratura, dall’altra parte e in silenzio. Il crescere delle diseguaglianze e la retorica ben riuscita sulla precarietà rappresentano l’altra faccia della cooperazione, quella dove una facoltà caratteristica della specie umana, tale che, nella sua capacità di progettare e pensare il futuro, distingue gli uomini dagli scimpanzé, loro parenti prossimi nella scala evolutiva, diventa lo strumento più efficace dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Nel modo capitalistico di produzione questa stessa facoltà cooperativa è diventata il luogo sistematico dello sfruttamento, e tende a svuotare le facoltà individuali e a trasferirle ai mezzi di lavoro. Nel macchinismo, la figura più complessa di cooperazione capitalistica, questo trasferimento si realizza completamente.
Questo processo è dilagato ovunque. Esso ha come conseguenza la perdita di autonomia e di orgoglio di chi è costretto, suo malgrado, a strisciare per ottenere un favore e la crescita dell’odio nei confronti del potere e della politica. La sudditanza è una strana miscela antipolitica di sottomissione, condivisione e odio. Questa situazione è aggravata dalla precarietà. Diciamo le cose come stanno, senza ipocrisie. La precarietà è una condizione schiavile che fu vergognosamente confusa con la flessibilità, un tipico privilegio di chi il lavoro ce l’ha. Può essere alleggerita soltanto se si è in grado di legarla, come prospettiva di lavoro, a un futuro concreto di stabilità, di cui nessuno si preoccupa oggi veramente. Quanta arroganza nell’idea della monotonia del lavoro fisso! La tipica arroganza di chi il lavoro fisso ce l’ha. Il cambiamento è attraente solo se è dettato da una libera scelta. Se si è costretti a cambiare per necessità, è a dir poco sconfortante. Essere flessibili implica una scelta, essere precari comporta una costrizione.
Essere precari con i capelli grigi è una condanna reale oggi ancora di più aggravata dalla tragedia della pandemia. E’ vivere come Dorian Grey e il suo ritratto che invecchia al suo posto. Tutti sappiamo come andò a finire: male
La precarietà blocca inoltre l’emancipazione dalla famiglia d’origine, che tuttavia resta l’unica protezione possibile, affettiva e economica, ma che può diventare una prigione dove il tempo sembra fermarsi. Il tempo invece passa inesorabilmente. Essere giovani a tarda età era prima un illusorio privilegio dei ricchi e dei benestanti che tuttavia, in questo mondo in cui trionfa l’estetizzazione, si sta democraticamente espandendo a livello di massa (quella occidentale, intendo). Essere precari con i capelli grigi è una condanna reale oggi ancora di più aggravata dalla tragedia della pandemia. E’ vivere come Dorian Grey e il suo ritratto che invecchia al suo posto. Tutti sappiamo come andò a finire: male.
Secondo Marx, in quanto pianificata con altri, la cooperazione sviluppa la facoltà della specie umana, ma, nello stesso tempo, diventa il mezzo più potente e più truce di sfruttamento degli uomini da parte di altri uomini. Una cooperazione pianificata con altri implica delle relazioni di potere e dei dispositivi di potere. Un’orchestra sinfonica si dispone diversamente da un complesso di musica jazz e se un dispositivo è l’insieme degli organi che compongono un apparato, è evidente che la disposizione dei musicisti in un’orchestra sinfonica o in un complesso jazz si presenta come assai diversa in termini di gerarchia. Un esercito è di per sé un dispositivo, ma possiede anche dei dispositivi che determinano il modo in cui si dispongono appunto i soldati. Una fabbrica può disporsi in vario modo, verticalmente o orizzontalmente, gerarchicamente o egualitariamente. In tutti e tre i casi, il dispositivo ha evidentemente a che fare con il potere. Ma questo significa di per sé che il dispositivo in quanto potere contamina e opprime e che l’unica risposta possibile è la resistenza? Tutto ciò che ha a che fare con il cooperativo, più in generale con il sociale e con i suoi inevitabili vincoli mette in pericolo, quando non la uccide, l’individualità degli individui? Non va a profilarsi in questo modo un tradizionalissimo quadro liberal-liberistico? Dobbiamo immaginare forme alternative di lavoro cooperativo a partire dalle possibilità offerta dalla realtà sociale e storica.
Se, come dice Deleuze, “noi appartieniamo a dei dispositivi e agiamo in essi”, e se, come si è ricordato prima, un dispositivo è l’insieme degli organi che compongono un apparato, la domanda allora è: vi può essere un lavoro cooperativo pianificato ma non dispotico come per esempio in musica è il jazz?