Custodire la salute pubblica come bene comune deve diventare principio guida di una nuova normalità. Per questo scopo una via decisiva è la partecipazione civica. Al primo posto in questo obiettivo ci sono le scuole, i luoghi associativi dei lavoratori, i luoghi associativi dei cittadini nel territorio.
Siamo alla ricerca di una nuova normalità, ciò che vogliamo introdurre nel nostro nuovo quotidiano è che l’igiene ambientale, la salute pubblica non sono questioni che riguardano l’emergenza o i servizi preposti, sono una questione che riguarda tutti, anche la scuola. Scuola che dovrebbe includere tra i suoi compiti non solo interventi cognitivi riguardanti l’igiene, i virus e quant’altro, ma anche pratiche quotidiane finalizzate alla sicurezza attiva, ossia a custodire quel bene comune che è la salute pubblica piuttosto che una sicurezza passiva che paralizza le menti oltre che i corpi. Quando milioni di persone affrontano insieme il problema della pandemia è un’occasione d’oro per compiere una gigantesca operazione pedagogica riguardante la cura per il bene comune.
C’è una retorica del volontariato che va rivista.
C’è il volontariato delle cause, la dedizione di un gruppo di cittadini a una particolare causa che ha comunque un rilievo civile, ma riguarda ambiti specifici. C’è un volontariato che riguarda il quotidiano ed i beni comuni di uso quotidiano che dovrebbe essere chiamato per quello che è ossia partecipazione civica.
Partecipazione civica non è la stessa cosa della partecipazione politica. In politica è implicita la rappresentanza, è implicita la divisione in partiti politici; nella partecipazione civica sta al primo posto l’impegno in prima persona. La prima cosa che va messa in discussione dopo il coronavirus è l’estensione agli ambiti tecnici del principio della delega politica: abbiamo visto che i tecnici da soli non bastano, che quando sono coinvolti milioni di persone non si può dire: “ci pensano gli esperti”, perché l’unica soluzione che propongono sono gli arresti domiciliari per tutti. Dobbiamo pensarci noi e non con il fai da te dei social media. Abbiamo bisogno di luoghi sociali di ragionevolezza, di quella ragione che sa mettere a confronto la razionalità tecnica che ha una sua stringente logica interna ma che non esaurisce il pensiero, con la razionalità delle relazioni e della socialità che ha una logica molto più complessa. Tra i luoghi sociali della ragionevolezza io credo che al primo posto ci sono le scuole, i luoghi associativi dei lavoratori, i luoghi associativi dei cittadini nel territorio. Intendo per luoghi di ragionevolezza i luoghi in cui guardandosi negli occhi viene elaborato un discorso pubblico condiviso. Non abbiamo alternative: mancano i grandi garanti sociali e psichici, dobbiamo affidarci a noi stessi e alle nostre capacità di dialogo nelle comunità. Non sto parlando in modo retorico di comunità.
Le comunità non esistono se non esiste un discorso pubblico condiviso, se non esiste un modo quotidiano di confrontarsi, se non esiste un modo responsabile di rispondere delle proprie risorse comunicative e sociali. Per quanto sia azzardato il paragone io continuo a pensare all’8 settembre del 1943, quando milioni di persone a cui era stato chiesto di “credere, obbedire e combattere”, si sono ritrovate con i capi in fuga e con nessun governo né della cosa pubblica né di se stessi. Hanno dovuto scoprire dentro di sé quella solidarietà umana che per due decenni era stata sostituita dalla retorica della cieca obbedienza. La resistenza armata, che prima di tutto io considero un movimento civico, nacque dalla rinnovata riscoperta della solidarietà umana e non solo da uno scontro di fazioni come talora si avalla. Dobbiamo riscoprire e mettere al primo posto la solidarietà umana e contenere in questo modo la razionalità tecnica elevata a pensiero assoluto.
Ci sono delle implicazioni: ad esempio la sicurezza dei luoghi di lavoro non può ridursi alla presenza di un responsabile della sicurezza come qualche volta accade. Nelle scuole certamente accade molto spesso e soprattutto la sicurezza si riduce ai piani di evacuazione. Ma la sicurezza riguarda la fisica dei luoghi, la chimica delle sostanze, la biologia dell’alimentazione e degli ambienti. Quanti piani di sicurezza si occupano in modo adeguato di tutti questi aspetti, ma soprattutto bisogna chiedersi quale sia il grado di partecipazione dell’intera comunità ai piani di sicurezza. Ho raccontato altrove che quando avevo 8 anni, nel 1954, la mia maestra apriva la giornata passando in rassegna la pulizia di tutti e ogni giorno tre bambini erano i suoi aiutanti in questo. Non ditemi nulla sulla privacy, sulle competenze, sui regolamenti, focalizzate solo il fatto che questa maestra e i suoi allievi avevano ben presente che c’era in giro la tubercolosi, il tracoma, la difterite, il tifo e altre malattie che anche io bambino conoscevo per aver visto i miei vicini infettarsi, per aver sentito di bambini morti. Dunque, la salute nel senso ampio e complesso del termine è un bene comune ed è la comunità che deve occuparsene salvaguardando insieme il benessere fisico, quello psichico, la privacy, le relazioni affettive, le relazioni sociali o molto più semplicemente occorre che una comunità mantenga viva in se stessa tutte le ragioni della convivenza parlando dei problemi e affrontando di volta in volta le contradizioni che emergono. Ecco, esiste una sicurezza passiva tutta in mano ai tecnici che emanano rigide norme a cui obbedire ciecamente ed esiste una sicurezza attiva in cui norme altrettanto rigorose mobilitano le risorse dell’individuo e della comunità. Bisogna aprire una discussione su questo nei luoghi di lavoro, nei luoghi sociali, nei luoghi della ragionevolezza.