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Il mosaico di Mameli

Autore

Sebastiano Bisson
Si interessa di scrittura, narrazioni e business storytelling. Si occupa di consulenze nell’ambito della comunicazione, della gestione di progetti digitali e dello sviluppo di contenuti; ha collaborato con Zanichelli Editore, ETT Solutions, Lamborghini Automobili. Ha raccolto diverse esperienze nel mondo dell’editoria ed è stato docente di "Redazione editoriale" presso le università di Roma La Sapienza e Urbino. Ha pubblicato il radiodramma "Oltre il valico", trasmesso da Rai RadioDue, e il romanzo "La felicità è altrove" (Diacritica, 2020).

L’undici agosto 2024 si è chiusa un’edizione delle Olimpiadi che ha introdotto un approccio innovativo nel gestire il rapporto tra luoghi e competizioni, tra sport e città, in una Parigi quasi trasfigurata nella scelta di farsi letteralmente invadere da atleti e di trasformare in campi da gioco, piste, piscine anche gli spazi meno ovvi, e forse in qualche caso anche meno adeguati, ma sicuramente con un coraggio nella sperimentazione che va senza dubbio riconosciuto e che di frequente contraddistingue gli eventi organizzati dai cugini d’oltralpe. In quel contesto, il merito e l’impegno degli atleti italiani ha consentito di portare sul gradino più alto del podio, per dodici volte, il nostro inno nazionale: occhi lucidi, mano sul cuore, parole cantate a tutta voce oppure sussurrate fra le labbra, complice una troppo grande emozione.

Parole che compongono un testo, proprio come le tessere compongono un mosaico, il cui disegno finale è strettamente legato alla scelta delle singole parole o delle singole tessere. Tutto quello che abbiamo sott’occhio o a portata d’orecchio di frequente, accade che finiamo per non vederlo o ascoltarlo più, lo diamo per scontato, è un dato oggettivo, appiattito nell’abitudine di ritrovarlo sempre uguale a se stesso, ripetuto all’infinito in quella forma, una forma che in realtà abbiamo smesso di osservare o di ascoltare da lungo tempo.

L’inno di Mameli è uno degli esempi più evidenti di testo mandato a memoria in maniera totalmente acritica, un mosaico di parole che meriterebbe invece di essere analizzato in dettaglio per il ruolo che ha assunto. Peraltro il Canto degli Italiani di Goffredo Mameli è diventato ufficialmente il nostro inno nazionale solo nel 2017, dopo 71 anni di adozione provvisoria, segno di una certa perplessità sulla scelta che si è trascinata da un governo all’altro a partire dal 1946. Di fatto oggi si canta solo una strofa, la prima, e si chiude con il ritornello ignorando tutto il resto, ma rimaniamo pure su quei pochi versi superstiti per rintracciare diverse tessere significative. Dopo l’apostrofe ai “fratelli” – includendo tacitamente anche le sorelle – incontriamo l’elmo di Scipio. L’elmo è il copricapo della guerra, cambia foggia nei secoli, e forse già state pensando al modello corinzio indossato da Achille oppure al cavaliere medievale che cela la sua identità dietro la visiera durante un torneo, in ogni caso la funzione rimane la stessa: dichiarare che siamo pronti alla battaglia. Il personaggio preso a modello è Publio Cornelio Scipione, detto anche Scipione l’Africano, il militare che sconfisse Annibale e i cartaginesi a Zama. Nel clima bellico è ovvio aspettarsi dei prigionieri che all’epoca non potevano appellarsi alla convenzione di Ginevra e diventano perciò schiavi di Roma, ergo dell’Italia che sottomette la vittoria e la fa sua, con il beneplacito del buon Iddio. Si procede quindi con il ritornello in formazione d’attacco, la coorte romana, sapendo che la prospettiva nella gran parte dei casi è purtroppo la stessa: “siam pronti alla morte”.

All’indomani della chiusura delle Olimpiadi, il 12 agosto, l’inno è stato nuovamente cantato. Lo si è sentito risuonare in una piccola località isolata delle Alpi Apuane, ricorrevano infatti gli ottant’anni dalla strage nazifascista a Sant’Anna di Stazzema: 560 vittime fra cui circa 130 bambini. Un luogo e una memoria che gridano disperazione in faccia alla guerra, eppure le celebrazioni ufficiali hanno assunto l’aspetto di una rappresentazione dedicata alla propaganda bellica con il passaggio nel cielo di due caccia dell’aeronautica e appunto il Canto degli Italiani, come se fra i complici della strage non si contassero anche nostri connazionali. Ne ha scritto di recente Lorenzo Guadagnucci in un intervento sul tema del fallimento dei luoghi della memoria, portandomi a riflettere più volte in poche ore sulle parole che compongono l’inno di Mameli e sui contrasti che osservo cristallizzarsi attorno ad esse.

A Parigi si sono incontrati oltre diecimila atleti, tolta una piccola quota di veterani si è trattato di un folla di ragazze e ragazzi giovani, se non giovanissimi, seri e impegnati, eppure anche giocosi e spensierati all’interno del circo del villaggio olimpico, come è giusto sia a quelle età. Difficile descrivere quale sia stata l’emozione per chi ha chiuso l’esperienza con la medaglia d’oro al collo, il culmine festoso a cui si evita di pensare, per scaramanzia, per modestia, per paura di fallire, ma che quando arriva dev’essere una specie di uragano emozionale, una gioia dalla carica positiva incommensurabile. Una carica a molla atomica compressa sulla vetta del podio che fa pensare davvero a tutto meno che alla morte. Sarebbe bello in quelle situazioni sentir cantare «siam pronti alla vita, l’Italia chiamò!».

Ovviamente nessuno vuole puntare il dito verso Goffredo Mameli, un giovane d’altri tempi che si espresse come appunto i suoi tempi gli consentivano di fare, con quella retorica, in quel preciso contesto storico. Il suo podio fu il colle del Gianicolo, dove si trovò a combattere a difesa della Repubblica romana, dopo essere cresciuto a pane e patriottismo, un patriottismo tutto rivolto ‘contro’ qualcuno. Senza rinnegare la Storia, si tratta a volte di avere il coraggio di osare il cambiamento, di reinventare i luoghi per farli diventare messaggeri di contenuti differenti, come hanno saputo fare a Parigi trasformando le piazze in piste da corsa, o come non hanno saputo fare a Sant’Anna di Stazzema, mostrando muscoli belligeranti e cantando brani inneggianti alla guerra come La leggenda del Piave. Una società è tanto avanzata quanto più è capace di distillare il passato, interpretare il presente, progettare il futuro. Bisogna sapersi muovere su tutti e tre i livelli, facendo scelte che riconoscono come il mondo è cambiato, altrimenti il risultato è un procedere zoppicante, opportunista e fatalista, che non può condurre lontano.

Ma perché prendersela con l’inno nazionale, obietterà qualcuno. Quale peso effettivo può avere la marcia musicata da Michele Novaro che oramai è d’uso vezzeggiare con l’irriverente poropò? Il mio pensiero è che con l’inno si alimenta lo spirito della nazione, perché viene intonato in momenti di grande partecipazione e coinvolgimento, perché è trasversale a tutti gli schieramenti politici e sociali, e nessuno si sogna di ripudiarlo, perché è uno dei nostri biglietti da visita e racconta come il paese si vede allo specchio e come si pone verso gli altri. In questo senso le tessere che lo compongono vanno soppesate con cura, prendendosi la responsabilità di metterle in discussione quando risultano ancorate ad una visione del mondo che vorremmo (spero) superare. Per rispondere dunque a chi chiede perché preoccuparsi dell’inno di Mameli, lascio spazio a Paolo Sarpi che oltre quattrocento anni fa lo spiegò impeccabilmente: «la materia dei libri par cosa di poco momento perché tutta di parole; ma da quelle parole vengono le opinioni del mondo, che causano le parzialità, le sedizioni e finalmente le guerre. Sono parole sì, ma che in conseguenza tirano seco eserciti armati».

La preoccupazione dovrebbe essere primaria se tenessimo presente l’articolo 11 della Costituzione – un altro bel mosaico denso di significato – quando dichiara: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Allora se volessimo davvero fermare i cingoli dei mezzi blindati e lasciare a terra i droni killer, dovremmo cominciare dalle parole, proprio come suggerisce fra Paolo Sarpi e fare chiarezza nel pensiero ripulendolo da tutti quei riferimenti alla vendetta, alla violenza, all’odio. Senza rinnegare i valori che la Storia ci ha lasciato in eredità, è necessario collocarsi in una prospettiva differente, rovesciare il paradigma: si vis pacem, para pacem. Questo ripetiamo spesso con gli amici dell’associazione Movimento Tellurico che da tempo lavora ad un progetto di cammino fra Sant’Anna di Stazzema e Monte Sole (Marzabotto), perché la logica della guerra, una volta che è innescata, non si disinnesca più; va impedito che quel circolo vizioso abbia inizio, va lasciato andare il para bellum degli antichi romani, figlio di una mentalità che ha prodotto milioni di cadaveri, più civili che militari, solo negli ultimi cento anni.

Il mosaico di Mameli va cambiato perché anch’esso figlio di quella mentalità. 

«Riscrivere l’inno nazionale: un po’ per ridere un po’ sul serio, era questo il progetto che avevamo insieme» disse il compositore Luciano Berio all’indomani della morte di Fabrizio De André. «Naturalmente ci eravamo divisi i compiti: a lui toccavano i testi e a me la musica. E io intanto la musica l’ho scritta. Purtroppo mancano le sue parole». Ma è proprio così: il punto sono le parole.

La proposta è quindi di partire dalle parole: cambiamo solo alcune tessere del mosaico, quelle più datate, quelle più dissonanti, nell’attesa magari in futuro di un nuovo inno nazionale. Nel frattempo avremo delle parole nuove per i prossimi ori olimpici e per le prossime commemorazioni. Sarà un dettaglio, un soffio in apparenza appena percettibile, ma carico di significato e generativo di una visione che realmente si impegna a ripudiare la guerra. Sarà un mosaico differente che, ne sono convinto, sarebbe piaciuto a quel ragazzo pronto alla morte a soli 21 anni di nome Goffredo Mameli.

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