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Sulla difficoltà di essere semplici

Autore

Paolo Fedrigotti
Paolo Fedrigotti (Rovereto, 1981) si è laureato in filosofia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con una tesi su Dante e la filosofia medioevale. Si è specializzato nell’insegnamento secondario presso la Ssis della Libera Università di Bolzano. Ha conseguito il baccellierato in Sacra Teologia presso lo Studio teologico accademico di Trento. Nella stessa città è docente di storia della filosofia e di filosofia della conoscenza ed epistemologia all’Istituto teologico affiliato e all’Istituto di scienze religiose, nonché di filosofia e storia nei licei di Riva del Garda. È membro della Scuola di Anagogia di Bologna e autore di numerosi articoli specialistici e monografie.

DODICI VIRTÙ PER DIVENIRE UN PO’ PIÙ UMANI

Sembra paradossale, ma essere uomini semplici non è facile. Per convincersene basta scorrere le pagine di un breve quanto denso saggio di Carlo Ossola dal titolo Trattato delle piccole virtù. Breviario di civiltà. L’opera in questione (di cui voglio qui offrire fondamentalmente un’entusiastica recensione al fine di invogliare il lettore ad una sua considerazione puntuale) è preziosissima: essa si configura come un piccolo vademecum da seguire per diventare persone semplici ovvero autentiche perché prive di infingimenti, egoismi, doppiezze e imposture di sorta, di pieghe, insomma, che rovinano l’esistenza giacché esser semplici significa etimologicamente essere sine-plicis, senza pieghe appunto; una sorta di manuale da seguire, in qualche modo, per essere pienamente se stessi, organizzato in dodici capitoli che rappresentano altrettanti viaggi dello spirito, accompagnati da grandi nomi della storia del pensiero e della letteratura come Cicerone, Lucrezio, Manzoni, Victor Hugo, Goldoni, Leopardi e come Emily Dickinson, Wisława Szymborska, Thomas S. Eliot e Georges Bernanos. 

L’opera di Ossola non si presenta certamente come un mero galateo, bensì come l’esposizione programmatica di un progetto di vita buona. Già, perché essere semplici significa, ipso facto, esser buoni e viceversa. Comprendere il significato di quest’equazione è decisivo, soprattutto per un’epoca come la nostra in cui l’assolo sembra prevalere sul vivere corale e la necessità di prendersi cura dei beni comuni pare cozzare con gli interessi insuperabili del singolo: essere semplici – per Ossola – richiede grande impegno ed ininterrotta applicazione nel sostanziare la quotidianità con atteggiamenti di discrezione, capacità d’ascolto, contegno pieno di riguardo per gli altri, di virtù – alla fine delle fini – che si oppongono alla competizione, all’emulazione, alla valutazione comparativa1.

«Virtù comuni – constata l’autore – che occorre esercitare ogni giorno nella fatica dell’essere in società, che non sono piccole se non perché come tali sono percepite e che richiedono un costante esercizio di sé, una vigile coscienza del limite, proprio e altrui. Modi d’essere e di fare essenziali, nel lavoro, feriale e collettivo, di essere uomini»2.

L’ispirazione da cui Ossola muove nello stendere la sua fenomenologia della vita semplice è offerta da uno squisito trattatello tardosettecentesco (che fa da appendice al volume preso in esame) in cui il gesuita Giovan Battista Roberti (Bassano del Grappa, 1719-1786), compendiando secoli di civiltà europea, descrive alcune virtù utili a chiunque viva in società di altri viventi razionali3 che egli chiama virtù piccole, atte a caratterizzare la vita dell’uomo semplice e buono. Rifacendosi alle indicazioni del religioso veneto, anche Ossola crede che, per realizzarsi autenticamente tramite l’esercizio della libertà, il soggetto debba lasciarsi informare da tali specifiche virtù. Esse posseggono alcune caratteristiche precipue: sono, anzitutto sicure.

«La loro sicurezza – nota il Roberti – nasce dalla loro stessa picciolezza. Esse non sono pompose, perché versano sopra oggetti leggeri: si esercitano quasi senza la riputazione di essere virtuosi; ed il prossimo le esige più che non le ammira»4.

Le virtù di cui si tratta sono, poi, usuali, cioè – come dice il gesuita bassanese – di un uso frequente e cotidiano, comuni a tutte le stagioni5, e convenienti alla natura della persona

«Le virtù piccole sono virtù ragionate. Spiego tosto questo vocabolo. Già tutte le virtù sono ragionevoli; e benché alcune sieno superiori alla ragione, tuttavia la illustrano e la perfezionano. Voglio significare solamente che la pratica di tali virtù è piena di ragionevolezza ancora umana, cioè di molte convenienze, che la stessa ragione col solo natural suo lume non può non approvare maravigliosamente»6.

Ebbene, se – dando quanto detto per assodato – dovessimo individuare le dodici virtù a cui Ossola viene riferendosi nella sua operetta? Esse sono senz’altro riconoscibili nell’affabilità, nella discrezione, nella bonarietà, nella schiettezza, nella lealtà, nella gratitudine, nella premura, nell’urbanità, nella misura, nella pacatezza, nella costanza e nella generosità. Consapevole di non poter sostare, in tal sede, su ciascuno degli habitus elencati per enuclearne l’essenza, vorrei soffermarmi un poco sulla tematizzazione ossoliana della gratitudine: se le altre virtù sembrano concorrere soltanto accidentalmente a rendere una vita semplice, questa pare essere un suo ingrediente sostanziale. A ben vedere, vivere la gratitudine ed esistere gratamente di quello che si è e che si ha – oltre che un atto di realismo estremo – è il modo più vero di vivere ed esistere e, proprio per questo, il più semplice; è – come si diceva in apertura – la maniera più difficile di stare al mondo, in equilibrio tra verticalità e orizzontalità; è il frutto di una profonda e rigorosa educazione dell’intelligenza e l’ultimo traguardo di una lunga ricerca tesa al raggiungimento della trasparenza interiore e all’individuazione del fil rouge che riunisce i frammenti del reale, compaginandoli in armonia.

«La gratitudine – afferma Carlo Ossola – è il peso più difficile da portare, e spesso si finisce per detestare chi ci ha fatto benefici: sembra preferibile che tutto abbia un prezzo, perché il gratuito, essendo impagabile, non può essere chiuso da una contro-offerta. (…) La gratitudine impone davvero una sorta di conversione: quella di ammettere che tutto ciò che si è ottenuto lo si è avuto non tanto per i propri meriti ma per la benevolenza altrui. È difficile, per il nostro orgoglio, riconoscerlo»7

Quanto il nostro autore attesta è indiscutibilmente vero. Cogliere con serietà la profondità delle sue osservazioni e valorizzare la portata della gratitudine nelle nostre vite vuol dire non solo compiere qualcosa di meritorio sul piano della morale individuale, ma anche assecondare la nostra entità naturaliter politica; significa contribuire a ritessere le trame logorate dalla convivenza vicendevolmente manipolatoria in cui la nostra società è caduta (un contesto in cui tutti siamo funzionali a qualcosa e nel quale, proprio per questo, risultiamo ultimamente inutili) e a rialfabetizzare la grammatica della relazione, diventando consci del suo valore irrinunciabile. Se mostrare al contesto postmoderno l’universalità del codice della gratitudine servendosi della dialettica filosofica sembra un’impresa improba a causa della disabitudine del soggetto contemporaneo a riflettere, una strada su cui incamminarsi per farne emergere la consistenza è quella di testimoniarne in actu exercito la verità pratica. È forse questo il sentiero, irto ma estremamente allettante, che il Trattato delle piccole virtù – rivelandosi un vero e proprio inno alla gioia e un grande farmaco per i tempi lividi che stiamo attraversando – chiede a ciascuno di noi di imboccare per trasformare il proprio ambiente di vita in un luogo in cui autorealizzazione e solidarietà, autenticità e reciprocità si realizzino insieme.

NOTE
1. Cfr. C. Ossola, Trattato delle piccole virtù. Breviario di civiltà, Marsilio, Venezia 2019, p. 9
2. Ibi, p. 13
3. Cfr. Ibi, p. 83
4. Ibi, p. 88
5. Cfr. Ibi, p. 92
6. Cfr. Ibi, p. 92
7. Ibi, pp. 35-37

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