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Nei semplici la vita

Autore

Lavinia Mainardi
Laureata in filosofia con una tesi in estetica nell'anno 1994 presso l'Università degli studi di Bologna, Lavinia è una curiosa, ambientalista, studiosa di estetica e di filosofia del paesaggio, semiotica, iconologia, iconografia e visual studies

I semplici sono erbe: addomesticata la loro impermanenza nelle geometrie cloisonnées di un hortus conclusus, similmente ai mandala evocati da George David Haskell nel suo tentativo di “vedere l’intera foresta attraverso una piccola finestra contemplativa”, o nascosti nel fitto brassage, decriptabile solo da saperi notturni e saggezze sciamaniche, costituiscono gli atomi di una farmacopea analogica fondata sulle corrispondenze fra macro e microcosmo ma soprattutto sulla certezza terapeutica della natura.

Scrive Luigi Zangheri “Tra i primi studiosi dei semplici Teofrasto di Ereso che fu scolaro di Platone e di Aristotele, scrisse i dieci libri della “Storia delle Piante” e i sei libri dell’“Origine delle piante”, dopo di lui Dioscoride, probabilmente un medico militare originario dell’Asia Minore, nel primo secolo d.C., compilò il “De materia medica”, di cui sopravvisse una copia manoscritta dell’anno 512, appartenuta a Giuliana Anicia principessa di Bisanzio, portata a Vienna nel XVI secolo. Tra i più antichi orti botanici celebri quelli dei Tolomei ad Alessandria d’Egitto. Nel 1277 papa Niccolò III fece piantare in Vaticano un vasto viridiarum con una zona destinata alle piante medicinali e a disposizione degli archiatri pontifici. L’orto botanico pontificio fu ampliato da papa Niccolò V nel 1447, e il maestro della scuola di medicina dell’Università di Roma vi coltivava le piante che illustrava nelle sue lezioni. Analogamente ogni grande ospedale del tempo disponeva di giardini dei semplici, e il suo prefectus era medico e maestro di una scuola di medicina, anche se, dal 1240, Federico II aveva sancito nelle Constitutiones melfitanae la separazione tra le professioni di speziale e medico. A Firenze è documentata un’Officina Aromatorum presso l’Ospedale di santa Maria Nuova fino dal XV secolo, e la presenza di diversi “erbolai” che avevano il compito di raccogliere e coltivare i semplici”.

Nel 1568 l’eclettico naturalista Ulisse Aldrovandi, sulla scorta dell’imolese Luca Ghini,che  chiamato già negli anni quaranta da Cosimo I de’Medici alla cattedra de semplicibus medicinalibus a Pisa,dove ,per poter studiare dal vivo le piante, venne messo in opera il primo orto botanico – “luogo mutante” in “un multiforme orizzonte di prassi e teorizzazioni”,al contempo giardino umanistico, hortus cultus, laboratorio, emblema e contenitore di curiosità- aveva progettato a Bologna un giardino dei semplici da affiancare allo studio universitario. 

“Attorno a Luca Ghini – scrive Fabrizio Buldrini- si era creata una vera e propria scuola di botanica i cui membri, occupando poi sedi universitarie diverse, avevano divulgato la sua dottrina in Italia e in buona parte di Europa”. In una temperie fervida di scambi e collaborazioni, nel tentativo di liberare la conoscenza delle piante dal dogma delle auctoritates, uno dei suoi allievi -Pietro Andrea Mattioli- con cui Aldrovandi intratteneva fitti rapporti epistolari, a Praga aveva respirato quel clima prerudolfino di fervida ripresa estetica venata di esoterismo.

Lo stesso Aldrovandi non sembra sfuggire al demone del meraviglioso, concependo il mondo naturale come una collezione da incrementare continuamente nel numero e nella varietà, soprattutto nell’epoca in cui la colonizzazione delle Americhe costituisce un inesauribile serbatoio di scoperte e rarità esotiche. Che si tratti del suo museo- Pandechio”– di horti sicci o di horti vivi, Aldrovandi sembra quasi sovrapporre i naturalia con i mirabilia, confondere mito e scienza sotto l’egida della curiosità elevata a metodo. Scrive Krzysztof Pomian in “Aldrovandi e la curiosità”: “il sostantivo curiositas è apparso nella lingua latina nel II secolo d.C., ma solo duecento anni più tardi ha iniziato a essere usato con maggiore frequenza. Si riferisce al desiderio di sapere, sia esso legittimo o illecito. Sono stati i padri della Chiesa, e in particolare Sant’Agostino, a fare largo uso della parola curiositas come sinonimo di concupiscenza degli occhi, per condannare il desiderio di apprendere credenze pagane, eresie, astrologia divinatoria, teurgia, magia. Per i successivi otto secoli, la curiositas è stata discussa esclusivamente nel contesto monastico ed è la sua dimensione sociale ad essere principalmente evocata. A partire dal XII secolo, in seguito all’introduzione delle opere di Aristotele nell’insegnamento universitario e alla traduzione degli scritti astrologici e alchemici arabi, la lotta contro la curiosità si spostò dalle abbazie alle università”. Tuttavia, proprio dal XII secolo -continua Pomian- “il desiderio di conoscenza cominciò ad emanciparsi, dando luogo ad un numero crescente di traduzioni dall’arabo e dal greco e orientandosi verso ambiti profani -diritto, medicina, antichità, natura- e sempre più spesso verso le scienze proibite, con l’astrologia e la magia in primo piano. L’astrologia, l’alchimia, la magia e l’ermetismo fiorirono quindi fra il XV e il XVII secolo”. 

L’orto botanico dello studio bolognese è similmente a quello pisano e padovano diviso in quattro quadrati,a rappresentare i quattro elementi del mondo, sui quali simbolismi geografici e astrologici disegnano ulteriori figure geometriche. Il giardino è anche “luogo pratico” -ci ricorda la mostra “L’altro rinascimento” tenuta a palazzo Poggi nel 2023 a cura, fra gli altri, di Giuseppe Olmi- “frequentato da da studenti, farmacisti e medici che imparano a riconoscere le piante, si scambiano esperienze sulla loro efficacia, ma anche semi, talee e consigli per la coltivazione, il luogo in cui è possibile -come afferma lo stessi Aldrovandi- “ridurre la theorica alla vera pratica e cognizione di esse piante”.

La topografia del giardino dei semplici, dominata dalla quadripartizione dello spazio ( quattro è il numero della creazione, della natura coltivata, dei venti, delle stagioni, degli elementi e dei punti cardinali -ricorda Francesco Salvestrini -la cui polisemia viene trasmessa alla cultura medievale attraverso la mediazione di Boezio, Cassiodoro, Isidoro ed Agostino )deriva da quella dell’herbularius del giardino monastico, chiuso e dissodato e in questo metafora di un’integrazione fra natura e cultura, che si fa otium negotiosum. Il monaco, immerso nella viriditas elevata ontolologicamente a “proiezione artificiale di una realtà simbolica e ideale”, quella dell’Eden, confina l’irregolare e il ferino del desertum, della hyle, della materia vibrante direbbe Jane Bennett, domandolo con il lavoro e la preghiera.

L’abbazia è quindi concepita e definita attraverso dei canoni che si richiamano al modello della domus romana e del quadriportico: “dai monasteri irlandesi dove si era rifugiata durante le invasioni barbariche, la cultura greco-latina e la scienza dei topiarii romani – spiega Bernard Beck- ,attraverso l’esperienza della regola di San Colombano, era penetrata nei monasteri svizzeri al tempo della rinascenza carolingia”. Proprio nella biblioteca dell’Abbazia di San Gallo è conservata una planimetria, probabilmente redatta nello scriptorium di Reichenau per l’abate Gozbert, in cui è disegnato un modello ideale di monastero, basato sugli orientamenti ufficiali del monachesimo emersi dal sinodo di Aquisgrana ed ufficializzati dal potere imperiale. 

Il giardino viene suddiviso in quattro tipologie ovvero il chiostro, simbolo del Paradiso, claustrum animae, zona scoperta di forma regolare, spesso quadrato, circondato da corridoi coperti con arcate che vanno ad appoggiarsi su bassi parapetti, dal quale si accede ai vari locali, al cui centro è spesso o piantato un albero, l’arbor vitae, o si erge una fontana o un pozzo per l’ irrigazione da cui confluiscono quattro canali, disposti a croce, a simboleggiare il potere salvifico del battesimo e i fiumi del Paradiso.

L’hortulus, il giardino edibile, la cui funzione è eminentemente pratica ed economica.

Il pomarius, il verziere della letteratura cavalleresca, dove vengono sepolti i monaci strutturato a boschetto.

L’herbularius, l’orto dei semplici, nella pianta di San Gallo posizionato a nord vicino all’ infermeria, costituito da grandi aiuole rettangolari dove viene indicata la pianta coltivata, nella cui scelta si mescolano saperi medici dell’antichità, miti e riti del mondo romano e indirettamente orientale, reminiscenze classiche (Plinio, Virgilio, Columella) innestati, come nel caso della scuola di Salerno, su conoscenze derivanti da influssi islamici, la componente allegorica dei testi enciclopedici e la tradizione delle Sacre Scritture, e non ultime, consuetudini terapeutiche germano-celtiche , a fondare una farmacopea di cui è paradigmatico l’erbario di Ildegarda di Bingen.

Una farmacopea fondata sull’ analogia, su affinità segrete che permeano il vivente, su un’armonia che collega pianeti, animali, piante, metalli all’uomo, basata sulla teoria delle signature, ovvero la somiglianza formale fra aspetti del creato e parti del corpo umano nonché sulle leggi di antipatia e simpatia che, in quel contesto, governano le forze naturali.

Scrive Franco Cardini: “Negli stessi sereni e raccolti horti monastici, il sapere nascosto e negato di una cultura folklorica, non dimentica di origini e valori pagani ancorché destrutturati e decomposti, poteva passare attraverso i canali delle consuetudini terapeutiche con il loro bagaglio empirico fatto anche di antichi gesti e di antiche parole, un triangolo costituito da medicina esegesi e magia, sul quale i trattati botanici finiscono per giocare”.

Ecco farsi labili i confini fra terapia e veneficium, emergere dai confini più oscuri dell’ecumene raccoglitori di semi, funghi, radici, cortecce dagli arcani poteri, uscire dalle biblioteche monastiche erbari per fabbricare philtra e pharmaka. Un prato incolto dove cresce l’anemone, la belladonna, la verbena, il giusquiamo, la mandragora, lo stramonio, l’aconito, il papavero, il moly di omerica memoria, il colchico, con i loro alcaloidi dagli effetti psicotropi. 

Come non pensare alla via venefica di Dale Pendell, ai grimori psichedelici di cui ci parla Vanni Santoni, alla Gnosi verde, ai poteri trasformativi invocati da Pollan che scrive in “Piante che cambiano le mente”:“quando introduciamo queste piante nel nostro corpo e lasciamo che ci cambino la mente, entriamo in contatto con la natura in uno dei modi più profondi possibili”, richiamando così lo statuto ambiguo del pharmakon, al contempo medicina e veleno. Piante “magiche” del cui uso allucinogeno e psicoattivo nella tradizione occidentale, anche mistica e sacra, si sono occupati tra gli altri Gilberto Camilla e Gianluca Toro.

Come non pensare a Sadie Plant che in “Scritti sulla droga” rilegge lo sciamanesimo, il dionisiaco, l’orfismo e lo stesso misticismo medievale sub specie psicotropa attraverso la “Storia notturna “di Carlo Ginzburg : “Ginzburg -scrive la Plant- intraprese le sue indagini col desiderio di confutare una certa nozione di natura umana e alla fine si ritrovò a descrivere la storia sciamanica, il volo della trasformazione e del ritorno non come un incontro tra i tanti, ma la matrice di tutti i racconti possibili”.

E che un semplice prato possa essere un enigma da decifrare ce lo ha insegnato uno di quei rabdomanti di risorgive e di acque scure -direbbe Bachelard- ovvero Aby Warburg che, approcciando la pittura di Sandro Botticelli già nella sua tesi di dottorato del 1889, individuava nell’humus laurenziano, fra rinascenze astrologiche ed ermetiche dell’Accademia di Careggi, veicolate dalla diaspora di eruditi bizantini dopo la caduta di Costantinopoli, letteratura classica -l’ Ovidio dei Fasti e delle Metamorfosi e l’Eneide di Virgilio– e  prodromi di umanesimo -su tutti Boccaccio del Ninfale fiesolano e le contemporanee Stanze di Poliziano-, la clavis con cui decriptare la Primavera e il suo corteo fiorito, impresa cui del resto si dedicò poi tutta la scuola iconografica, da Gombrich a Wind, da Panofsky a Bredekamp. 

La scena si svolgerebbe nel giardino di Venere, una Venere letta con Lucrezio come emblema di rinascita stagionale, dove Zefiro tramuta la ninfa ( topos warburghiano evidenziato su tutti da Georges Didi-Huberman) Cloris in Flora, divinità del mondo vegetale, sotto la protezione di Venere e Cupido, affiancati dalle tre Grazie, avvinte in una danza nuziale e da Mercurio. 

Un quadro celebrativo, probabilmente un dono di nozze. Studiando i fiori e le piante che, quasi in un horror vacui vegetale, trabordano da bocche, vesti, suolo, sfondo e richiamandosi al tema del prato fiorito che dalla pittura gotica era arrivato a Beato Angelico e a Filippo Lippi fino al Leonardo dell’Annunciazione, nel contesto di un rinnovato interesse per la Natura che dal volgarizzamento di Plinio operato da Cristoforo Landino arriva ai giardini delle ville medicee, Mirella Levi d’Ancona ha proposto una lettura eminentemente botanica della Primavera.

Scrive Lucia Tongiorgi Tomasi: “profusione ed esuberanza floreale vanno ricondotte all’ordinata ma variata struttura (si pensi al concetto albertiano di varietas ben presente ai neoplatonici), dei giardini fiorentini contemporanei, alcuni dei quali si configuravano non solo come loci amoeni di classica memoria ma come veri e propri “giardini filosofici”. Erano luoghi compositi e complessi, dove ad un’esuberanza vitale e alla sensualità di colori e odori, si accostavano i sentimenti di instabilità e di deperibilità che inducevano alla meditazione sulle vanitates mundi. In questi spazi “teorici” erano tuttavia “concretamente” coltivate un gran numero di piante. Ci troviamo di fronte a un vero e proprio teatro della vita vegetale. La ricchezza delle piante medicamentose è documentata poi dagli incunaboli del Ricettario fiorentino, la farmacopea ufficiale della città. Alle virtù terapeutiche di alcuni vegetali era tradizionalmente implicita una valenza magico-astrologica, perché in una commistione tra scienza e magia, si riteneva che i corpi celesti esercitassero su di esse influenze positive o negative. Lontani dalle concezioni demoniache medievali, i pensatori umanistici avevano infatti individuato nella figura del “mago” quella del “sapiente” che ben conosce i segreti della natura ed è capace di dominarla in un corretto rapporto tra macro e microcosmo”.

Testimone di questa attenzione per il mondo vegetale è anche la tradizione iconografica dei codici erbari che sintetizzano, come già in passato, componenti eterogenee. Nel suo studio “Erborizzando nei quadri” Maria Adele Signorini individua più tipologiecon cui dipingere le piante, da quelle verosimilmente ritratte dal vero, a quelle non sufficientemente caratterizzate, a piante che uniscono elementi realistici ad altri di fantasia, alle chimere pittoriche, formate dall’unione di parti di piante diverse, alle piante monstra, innaturali, che dai codici miniati fino alle grottesche, inscenano una botanica totalmente immaginaria.

Ma siamo agli inizi del Cinquecento quando, sempre all’interno di una concezione analogica di tutte le forme viventi, è l’organico ad irrompere nell’arte, rappresentato attraverso i suoi processi plasmanti e i suoi schemi di metabolismo e crescita. 

“Libero dalle definizioni formali che caratterizzano l’uso di motivi decorativi vegetali nel Mantegna, nel Ghirlandaio, nel Perugino e in Botticelli, Leonardo introdusse un’enorme vitalità nelle sue rappresentazioni di piante- scrive William Emboden in “Leonardo Da Vinci on plants and gardens”-.Oltre al loro uso scenografico egli tenne conto del contesto ecologico e stagionale e di una riproduzione precisa dal punto di vista botanico”.

Attualizzandone l’opera all’interno di una concezione sistemica del vivente e delle recenti teorie della complessità, il fisico Fritjof Capra ravvisa nelle raffigurazioni botaniche all’interno dell’opus leonardesco, una novità dirompente, simboleggiata dalla scoperta del moto elicoidale, un vortice “in mutazione e al contempo stabile” che rappresenterebbe il codice archetipico della vita organica. 

Leonardo, infatti, prevedeva che la sesta parte del suo mai compiuto trattato di pittura fosse un “Discorso sulle erbe” e tracce di questo progetto sono disseminate all’interno del corpus dei suoi codici.

La “Vergine delle Rocce”, soprattutto nella versione del Louvre, diventa in questa prospettiva un ecosistema naturale, quello umido della grotta, fra le cui concrezioni sboccia una vegetazione ancora venata di richiami simbolici: le primule emblema di virtù, le foglie di palma di immortalità, gli anemoni a prefigurare la passione di Cristo e l’acanto la resurrezione, l’onnipresente iris richiama forse la città di Firenze.

La meraviglia per la natura diviene l’occasione per attualizzare una weltanschauung antitetica a quella meccanicistico-cartesiana, su cui si è innestato e ipertrofizzato l’antropocene, anzi il capitalocene per dirla con Jason Moore, fondata sul concetto di rete, “schema comune a tutta la vita” e di cui le piante, che non hanno concentrato le loro funzioni in organi ma distribuito diffusamente e a-gerarchicamente, diventano il paradigma.

Da qui si diparte un dialogo con il neurobiologo vegetale Stefano Mancuso. 

Mancuso assimila all’immagine della rete, di cui gli apparati radicali -il cui apice è in grado di percepire e rispondere all’ambiente- sono i nodi e le molecole chimiche, con cui vengono trasmessi segnali di comunicazione, costituiscono i link.

Scrive Mancuso in “Botanica”: “Provate a immaginare la complessità di queste centinaia di miliardi di apici radicali, che interagiscono fra loro, si accrescono ed esplorano il suolo alla ricerca di elementi nutritivi ed acqua, evitando gli ostacoli, le aree pericolose, i predatori o i molti patogeni presenti nel terreno”. Una “qualche forma di intelligenza anticipata già da Charles Darwin che nel 1880 concludendo il suo “The power of movement in plants” affermava “non è un’esagerazione dire che la punta delle radici, avendo il potere di dirigere i movimenti delle parti adiacenti, agisce come il cervello di un animale inferiore”. 

È tuttavia soltanto negli anni novanta del Novecento che il suolo, l’elemento ctonio, regno di Tellus e Proserpina, si trasforma metaforicamente in un cyberspazio percorso da impulsi elettrici, catene di micorrize, costellazioni simbiotiche di radici e funghi. Questo si deve principalmente alle intuizioni di Suzanne Simard, ricercatrice canadese, il cui “L’albero madre” anticipa le ricerche di Paco Calvo, Michael Pollan, Emanuele Coccia, Peter Wohlleben ed Eduardo Kohn: “Ho scoperto- scrive la Simard- che gli alberi formano una rete interdipendente, legata a un sistema di canali sotterranei in cui possono percepire, connettersi e relazionarsi con un’antica complessità e una saggezza che non può più essere negata”.

Come non rievocare il rizoma di Deleuze e Guattari, la sua orizzontalità ermeneutica, il suo statuto desiderante, la sua infinita possibilità di connessione all’insegna del molteplice, unica fuga possibile per la verticalità gerarchica dell’albero “Molte persone hanno un albero piantato nella testa -scrivono in “Millepiani” -ma il cervello stesso è più un’erba che un albero”.

E quindi ritornando ai giardini dei semplici, agli orti botanici,  Hervé Brunon, in “Conservare la biodiversità coltivata” afferma che “hanno contribuito a quello che Gilles Clément, nella sua teoria del “giardino planetario”, chiama brassage –in contrapposizione al concetto ecologico di endemia -,designando così il fenomeno, a sua volta spontaneo, accentuato dal cambiamento climatico e antropico che, redistribuendo e mescolando le specie, implica che un qualsiasi angolo di giardino sia un pezzo di mondo, un campione o indice della biodiversità globale”.

E che sia hortus conclusus o friche in cui attecchiscono le erbe vagabonde, la semplicità diventa proprio il farsi, consapevolmente, parte di un movimento il cui flusso richiama quello del vivente.

“Eravamo a Venezia in aprile, e io ebbra di luce acquamarina. È una luce impalpabile che gioca con le superfici mobili e scure dei canali, che luccica sulla pietra e sul marmo fondendoli insieme con molteplici sfumature, sempre acquamarina. Sperimentavo una bizzarra sensazione. Ogni volta che chiudevo gli occhi -e lo facevo sempre più spesso, deliberatamente- vedevo un verde molto inglese, molto più giallo, un amalgama di luce scintillante sui prati rasati e di pastosa luce verde dei boschi inglesi, una luce che svanisce dentro tronchi nodosi, guizzando fra le ombre su strati di foglie estive” Antonia Byatt per un momento, evocando due campioni di estetismo come Mariano Fortuny e il preraffaellita William Morris,nel ricordarci -come scrive Emanuele Coccia- che “tutte le forme vivono”, ci sottrae per un momento dal dualismo fra natura e cultura invitandoci a quel reicantamento che inizia forse proprio con  la pedagogia dell’erba. 

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